TEATRO DI TERRA
Teatro delle Ariette
in coproduzione con Festival Volterrateatro
Teatro di terra è il tempo di una trasformazione. La trasformazione del grano che diventa pane, del mais che diventa polenta. Una trasformazione a senso unico, irreversibile, dalla quale non si torna indietro.
“Non si può essere contemporaneamente ciò che si è e ciò che si è stati”. Eppure c’è una ragnatela di fili sottilissimi che unisce tutto, che ci unisce tutti, uomini, bestie, semi e frutti e foglie. Forse è per questo che ci ritroviamo attorno al Teatro di terra, per domandarci cosa è che ci unisce, quali dolori, quali gioie, quale destino abbiamo in comune su questo mondo-trottola. Il tempo passa e ci lascia inevitabilmente diversi da quello che eravamo un’ora prima, prima di incontrarci, eppure tutti egualmente prigionieri di quella ragnatela di fili che unisce i segni, le azioni, le parole e le cose.
[…] In Teatro di terra del Teatro delle Ariette, il pubblico circonda a semicerchio una gabbia con un gallo e una gallina, a forma di casa. Sul fondo stanno gli attori, vestiti da fornai, da camerieri, vicini a pentoloni, fornelli, formaggi. Uno di loro impasta, stende, inforna, cuoce schiacciate. Siamo seduti su bassi seggiolini, di fronte a tavolini ricavati su cassette di frutta. Gli attori ci racconteranno storie di abbandoni, dolori d’amore; spareranno e cadranno su un cumulo di terra a forma di cadavere disegnato sul selciato sotto voci di bombe, di attentati, di spari,di scontri, Genova 2001 e venti di guerra.
Sentiremo storie di semi, quante carote o grano producono, di acqua, di morte apparente nella terra e di germinazione. Sui piatti vengono imbanditi una minestra di ceci speziata e deliziosamente calda, formaggio e mandorle, schiacciate e vino. Chiamati al rito del cibo, la nostra quotidiana voracità di consumo viene bloccata dalla necessità di ascoltare, rapiti dall’emozione, con groppi che le canzoni di Tom Waits e le parole roche ci attaccano alla gola e riportati a noi dal gioco degli attori, che entrano nella tragedia leggermente , magari con un naso da clown.
Siamo in una cerimonia che sembra orientale, con la sua circolarità e lentezza a momenti ieratica, ed è molto padana: il pensiero si mescola con il boccone, e da un mucchio di terra innaffiata senz’acqua germogliano palloncini colorati mossi da aria sottile. Una ragazza accende un fornelletto e inizia a cucinare la polenta. Si parla delle terra violentata, della proliferazione di ibridi dai nomi inquietanti.
Dopo Teatro da mangiare? il Teatro delle Ariette torna all’autobiografia poetica, mai compiaciuta, sempre raffreddata dall’ironia, narrazione esemplare di una passione nata dalla delusione, dal conflitto col mondo della prestazione, della produzione a tutti i costi. Se nella storia del gruppo sta l’abbandono della città e del teatro per i paradisi promessi dell’agricoltura biologica, in questo spettacolo ritroviamo la voglia di fare i conti, profondamente, con il teatro come macchina per costruire mondi.
Pian piano entriamo nel ritmo della terra, che deve essere curata, viva anche quando l’uomo non esisterà più, bella perché nonostante le sconfitte e gli strazi nascono sempre bambini e perché non c’è impero o ideale che valga un solo pupazzo di neve.
Fra gli spettatori gira una cassetta piena di semi. Si brucerà del denaro, in un atto di suprema iconoclastia, che si rovescerà, anch’esso, in commercio.
Stefano Pasquini, con Paola Berselli e Maurizio Ferraresi l’anima del gruppo, racconta a quanti campi di calcio corrispondono i loro 2,8 ettari di terra in pendenza, lungo la Valle del Marcatore, sopra Bazzano. Le storie virano una nell’altra, mentre i polli, sollevati in aria, dolcemente chiocciano. Un ultimo racconto d’amore disperato, di miseria, di dolore, raccontato con una parrucca stopposa, sotto una pioggia di lacrime versate da un annaffiatoio. Un ultima visione della campagna, del lavoro e del riposo, della capacità di vedere le cose vicine e di sognare, mentre Patty Pravo canta che è stata una pazza idea amare e la polenta calda e profumata di rosmarino viene servita.
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