20 ottobre 2006
Teatro Cavallerizza
COMPAGNIA VIRGILIO SIENI
Un respiro
regìa, coreografia e luci Virgilio Sieni
con Simona Bertozzi e Ramona Caia
opere Flavio Favelli
musiche Francesco Giomi, Joe Hisaishi
assistente alla regia Carlo Cuppini
produzione 2006 Fondazione Teatro Ponchielli Cremona, Comune di Siena – Assessorato alla Cultura, Compagnia Virgilio Sieni
"Mano nella mano con eguale passo faticoso vanno. Nella mano libera — no. La mano libera vuota. La schiena voltata entrambi chini con eguale passo faticoso vanno. La mano del bambino tesa per afferrare la mano che lo tiene. Tenere la presa della mano del vecchio. Tenere ad essere tenuto. Continuare ad arrancare e non recedere mai. Lentamente senza mai una pausa nell'incedere e senza mai recedere. La schiena voltata. Entrambi chini. Uniti dal tenere la mano che tiene la mano. Incedere all'unisono. Un'ombra. Un'altra ombra." (Samuel Beckett)
Il lavoro nasce da una riflessione sul testo teatrale Respiro di Samuel Beckett, dove tutto si concentra sull’indicibile eternità di un respiro che dischiude l’immagine abbacinante di rifiuti eterogenei cosparsi sulla scena: lì si apre il sipario, la luce fioca lascia intravvedere oggetti abbandonati a terra, rifiuti. Un piccolo grido. Poi il suono di un respiro: durante l’inspirazione la luce aumenta di intensità; qualche secondo di sospensione. Segue l’espirazione e la luce torna fioca, all’intensità iniziale. Di nuovo il piccolo grido. Qualche istante di attesa; poi sipario.
All’inizio un film videoproiettato: 1975, due bambine appaiono nell’indeterminatezza dell’immagine; una sequenza di giochi “tra di loro”, fisici, schematici, essenziali, ermetici, come tante piccole performance sulla musica del Pas d’action da Il lago dei cigni di Ciajkovskij.
Poi una stanza nera, un salone, un’unica fonte di luce. Una donna sola in scena che pratica esercizi fisici, introspettivi e figurativi nello spazio di un respiro, nella bolla pneuma, compresa tra l’inspirazione e l’espirazione. Una seconda donna — un doppio, una complice, l’ombra e l’anima.
Il lavoro si costituisce metricamente, secondo una disposizione dei silenzi. Un tempo preciso dove tutto si anima e tutto crolla nell’arco di 45 secondi ripetuti. 60 respiri — ognuno trova una sua traduzione in un gesto. La gesticolazione e l’apparizione della figura si offre esattamente come il balbettio della parola.
Elementi costitutivi e fondanti del lavoro derivano da due collaborazioni artistiche: il grande lampadario di cristallo Grande Oriente è opera dell’artista Flavio Favelli; il suono del respiro è stato realizzato con Francesco Giomi e Tempo Reale.
Qui vi è presenza di corpo, che non è la metafora dei rifiuti, ma un rimasuglio organico addobbato nell’atto assoluto di lasciarsi attraversare dall’aria, da un respiro che prima compone il corpo concavo per poi trovarlo incavo alla fine. Si sviluppa un vocabolario di gesti unici, depositati in uno spazio abbandonato. Spazio concepito attraverso i resti dei corpi e dei gesti, che portano allo stupore, alla solitudine, al conflitto, alla visione della morte, al non esserci. Un catalogo, bestiario della natura umana dai timbri marginali, apparentemente nascosti, rivela una metrica temporale agghiacciante, fredda tanto da sconfinare ogni volta in continue domande sul corpo, sull’essenza della figura umana.
Le figure che appaiono alludono a clown; con loro si narra di un tempo lentissimo, di esercizi sulla lentezza non fisica ma temporale, di gesti infimi e banali, di gesti balordi sul senso dell’esistenza. Fotografie come un canto finale, preludio di un ultimo svuotamento.
È questa la mia casa?
All’inizio un film videoproiettato: 1975, due bambine appaiono nell’indeterminatezza dell’immagine; una sequenza di giochi “tra di loro”, fisici, schematici, essenziali, ermetici, come tante piccole performance sulla musica del Pas d’action da Il lago dei cigni di Ciajkovskij.
Poi una stanza nera, un salone, un’unica fonte di luce. Una donna sola in scena che pratica esercizi fisici, introspettivi e figurativi nello spazio di un respiro, nella bolla pneuma, compresa tra l’inspirazione e l’espirazione. Una seconda donna — un doppio, una complice, l’ombra e l’anima.
Il lavoro si costituisce metricamente, secondo una disposizione dei silenzi. Un tempo preciso dove tutto si anima e tutto crolla nell’arco di 45 secondi ripetuti. 60 respiri — ognuno trova una sua traduzione in un gesto. La gesticolazione e l’apparizione della figura si offre esattamente come il balbettio della parola.
Elementi costitutivi e fondanti del lavoro derivano da due collaborazioni artistiche: il grande lampadario di cristallo Grande Oriente è opera dell’artista Flavio Favelli; il suono del respiro è stato realizzato con Francesco Giomi e Tempo Reale.
Qui vi è presenza di corpo, che non è la metafora dei rifiuti, ma un rimasuglio organico addobbato nell’atto assoluto di lasciarsi attraversare dall’aria, da un respiro che prima compone il corpo concavo per poi trovarlo incavo alla fine. Si sviluppa un vocabolario di gesti unici, depositati in uno spazio abbandonato. Spazio concepito attraverso i resti dei corpi e dei gesti, che portano allo stupore, alla solitudine, al conflitto, alla visione della morte, al non esserci. Un catalogo, bestiario della natura umana dai timbri marginali, apparentemente nascosti, rivela una metrica temporale agghiacciante, fredda tanto da sconfinare ogni volta in continue domande sul corpo, sull’essenza della figura umana.
Le figure che appaiono alludono a clown; con loro si narra di un tempo lentissimo, di esercizi sulla lentezza non fisica ma temporale, di gesti infimi e banali, di gesti balordi sul senso dell’esistenza. Fotografie come un canto finale, preludio di un ultimo svuotamento.
È questa la mia casa?