Cantata greca. Uno spettacolo di Moni Ovadia
da due poemi di Yiannis Ritsos / traduzione di Nicola Crocetti
messa in scena Moni Ovadia, Elisa Savi
prima parte
DELFI
con Moni Ovadia
musica Piero Milesi
seconda parte
LA SONATA AL CHIARO DI LUNA
con Ornella Balestra, Moni Ovadia, Vincenzo Pasquariello
coreografia Ornella Balestra
musica Ludwig van Beethowen
prima assoluta
ideazione video Elisa Savi, Tommaso Lagattolla
elaborazioni 3D Vincenzo Caivano
realizzazione video Andrea Bocca/logout studio Torino
suono Mauro Pagiaro
spettacolo dedicato a Piero Milesi
Il poeta francese Louis Aragon, quando lesse il poema Epitaffios di Ritsos – un poema in forma di mirologio, lamento straziato e lirico di una madre sul corpo del figlio adolescente assassinato dalla polizia del tiranno Fascista Metaxas nel 1936 – ne rimase così impressionato che dichiarò: Ritsos è il più grande poeta del suo tempo. Una simile affermazione apodittica non pretende di rivelare una verità, ma erompe da un flusso di emozioni che evidentemente non sorge solo da una valutazione estetica ma coglie il senso profondo e dirompente di una personalità artistica, culturale, umana e politica di eccezionale caratura. In questo senso la perentoria affermazione di Aragon è assolutamente condivisibile.
I poemi che compongono i due tempi della nostra performance Grecità appartengono alla raccolta τέταρτη διάσταση (tetarti diastasi), Quarta dimensione, sono Δέλφι (Delfi) e Η σονάτα του σελινόφοτος (La sonata al chiaro di luna). Appartengono alla stagione più matura e più poeticamente compiuta dell'immensa e feconda produzione di Ritsos. I personaggi che il poeta fa parlare e insieme descrive nei loro sentimenti, nelle loro inquietudini e nelle loro fragilità sono un vecchio custode delle rovine di Delfi, sfinito dalla routine del suo lavoro che vede estenuarsi la bellezza di un leggendario passato, le statue e gli edifici, nella banalità consumatrice del mortificante sguardo turistico e una donna di buona famiglia e colta le cui ambizioni e i cui sogni di grandezza sono stati frustrati, che affronta le inesorabili azioni del tempo, le erosioni, il suo riverberarsi su memorie, evocazioni, sugli oggetti, sulle cose che malinconicamente vivono trasformandosi e liricamente contemplano lo sfarinamento delle loro fibre intime. Entrambi i personaggi dei due poemi parlano in presenza di un interlocutore muto ed è proprio questo interlocutore muto il tratto comune dei due poemi. Questa figura, che non parla e sembra ascoltare, è giovane, sfrontato, appartiene a un futuro indifferente ai sentimenti e ai pensieri dei due protagonisti e rende lancinante la mancata comunicazione monologante dei protagonisti. I due poemi vengono assunti in una dimensione teatrale attraverso la musica.
Delfi si fa opera musicale grazie alla composizione di un grande Piero Milesi che elabora topos e frammenti musicali della tradizione greca in una poderosa ed efficacissima scrittura minimalista con la voce e la parola che si fanno strumento anche per mezzo del doppio registro linguistico di italiano e neo ellenico.
La sonata al chiaro di luna è intessuta nelle note del primo movimento della sonata omonima di Beethoven, la musicalità del verso e della parola si nutrono del ritmo della celebre composizione pianistica anche in questo contesto in una relazione di torsione emozionale con il doppio registro linguistico di italiano e neo ellenico.
Entrambi i monologhi vivono nel contesto di una partitura di immagini, di suoni e di parole che conducono per mano lo spettatore nella scrittura poetica e nella sua musicalità. Ma mentre la prima parte Delfi vede in scena la sola presenza di un dicitore-cantore, Moni Ovadia, che incarna il vecchio custode delle rovine, la seconda parte, La sonata al chiaro di luna, si caratterizza per la presenza di tre interpreti, il poeta, Moni Ovadia, che recita il proprio poema, il pianista Vincenzo Pasquariello che esegue a mo' di vexation la prima parte della celebre sonata di Beethoven e l’anziana signora, Ornella Balestra, che interpreta i propri stati d'animo con una coreografia della lentezza che si esprime con perturbante magnetismo e icasticità.
(Moni Ovadia)
«Per molti anni nel secondo Novecento la poesia neogreca s’identificò anzitutto con il nome di Yiannis Ritsos (1909-1990), una delle voci più note della sinistra internazionale, e grazie ai suoi molti volumi di versi senz’altro la più prolifica.
Poeta di straordinaria facilità creativa, capace di forgiare immagini a partire da qualunque esperienza quotidiana, anche la più comune e insignificante, Ritsos abbandonò ben presto i modi del tardo simbolismo per farsi cantore di istanze proletarie e civili, destinate già dal 1936 a una circolazione ristretta o problematica a causa della notoria censura di Metaxàs.
Fu durante la guerra, e poi nel corso del conflitto civile che insanguinò la Grecia nel 1945-49, quindi ancora sotto il regime autoritario di Aléxandros Papagos e infine sotto la dittatura dei colonnelli (1967-74), che Ritsos acquisì un timbro proprio, di alta levatura civile e sociale, pagando con ripetuti confini, censure e angherie la propria fede ideologica e la propria fede nell’uomo.
Ritsos è senza dubbio una delle figure che più hanno mostrato al mondo quanto profondamente la poesia (e la fiducia nella poesia) siano penetrate nello spirito greco contemporaneo, nell’ottica di cui si discuteva in apertura di questa introduzione. Ciò è avvenuto anche in grazia della sua notorietà internazionale come strenuo oppositore della reazione e dei regimi autoritari; una forma condivisa peraltro anche dal compositore Mikis Theodorakis, che musicò varie sue liriche.
Nel lungo periodo, Ritsos orientò il suo multiforme ingegno verso due binari precipui, del resto strettamente correlati fra loro: da un lato appunto la poesia civile, che rappresentò con una credibilità pari alla drammaticità della sua vicenda biografica, ma senza mai scadere nel ruolo di acritico banditore di un’ortodossia; dall’altro – soprattutto a partire dagli anni 60 (ma La sonata al chiaro di luna è già del ’56) – la rivisitazione del mito antico in una chiave “attualizzante” assolutamente originale, che si cristallizzò nelle folgoranti Ripetizioni e nei distesi monologhi della Quarta dimensione (raccolti in volume nel 1972).
La poesia di Ritsos – qui sta la principale differenza rispetto a voci come quelle di Seferis o Elitis – è anzitutto una poesia delle cose, capace di forza evocativa non in virtù di elaborata vaghezza d’immagini o riferimenti storici o culturali, bensì attraverso la semplicità di un oggetto, un gesto, un nome. L’efficacia di questo modo lirico si palesa soprattutto dinanzi al dramma, là dove la storia si concreta nell’agire di singoli individui e in piccoli atti privati di cui nessuno, sul momento percepisce l’eco simbolica e leggendaria. È proprio in questa chiave “minore” di realtà umana mossa da idee semplici e da un naturale anelito alla giustizia, che Ritsos legge la Grecità (titolo di una raccolta del 1947), interpretando il paesaggio, la lingua, la tradizione antica, la vita quotidiana dei villaggi, non già come tappe o tasselli di un destino eroico o grandioso, ma come elementi di una geografia dell’anima che, per la sua inesausta pulsione verso la libertà, ha molto da insegnare all’uomo del Novecento e ai suoi drammi.
Per questo in realtà la poesia civile è in ultima analisi una riflessione sul passato, e anche il confronto con la storia e i miti della Grecia antica passa attraverso un’esplicita rilettura alla luce dei drammi attuali: paradigmatiche in questo senso sono la serie delle Ripetizioni, apparse non a caso tra il 1968 e il 1969, in un’età di grande fermento in Europa e di buio profondo per la libertà in patria.
L’onnipresenza delle cose (si vedano per esempio le pletoriche raccolte Parentesi, Esercizi, Testimonianze), così come l’indagine sentimentale dei rapporti elementari ma spesso laceranti che legano gli uomini alle cose, sono fili che uniscono tutti i versi di Ritsos, e che accomunano in uno stile inconfondibile – immediato ma profondissimo – la protesta antimilitarista e la riflessione esistenziale, il notturno e la rivisitazione della tragedia classica, l’allusione erotica (un altro dei suoi temi favoriti) e l’apologia metapoetica.
[…] Ben pochi sono i testi che non offrano almeno una metafora impressionante, un’immagine imprevedibile, un “taglio” sorprendente sulla realtà. Pur piena di oggetti quotidiani e di gesti banali, la poesia di Ritsos è “potente” come poche, in quanto tramite una serie di appigli provoca continuamente il lettore a colmare il divario tra se stesso (il proprio mondo) e la realtà (politica, amorosa, mitologica) descritta dal testo.
Purtroppo i poemetti della Quarta dimensione sono anche le opere più difficili da antologizzare: Oreste, Elena, Freda, Crisotemide, Filottete etc., descrivono il loro universo in lunghe architetture cariche di pathos e di anacronismi, che non procedono da una rielaborazione erudita delle tante versioni mitiche ereditate dall’antichità, ma accentuano il pathos tramite evocativi scenari e silenzi (come avviene talora nei film di soggetto antico di Michael Cacoyannis; ma non si dimentichi che il mito degli Atridi è alla base anche della Recita di Theo Anghelòpulos), e mirano a tratteggiare coscienze “contemporanee” a noi e tormentate come le nostre: persone che si spogliano della loro aura mitica ma non del proprio dramma, e si presentano cariche di un destino già scritto e di una memoria dolente – non è in fondo la stessa condizione di fondo dell’uomo novecentesco?»
(da: Poeti Greci del Novecento, a cura di Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani, Milano, Meridiani Mondadori, 2010)
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