RE LEAR
TEATRO VALLI
Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, Compagnia Mario Chiocchio
Di: William Shakespeare
traduzione di Agostino Lombardo
Con Roberto Herlitzka
e con Daniela Giovanetti, Luca Lazzareschi
e Giorgio Lanza, Rossana Mortara, Osvaldo Ruggieri
Scene: Bruno Buonincontri
Musiche: Germano Mazzocchetti
Luci : Nino Napoletano
Regia: Antonio Calenda
Venerdì 25 novembre ore 21 – turno verde DATA CANCELLATA CAUSA SCIOPERO
Sabato 26 novembre ore 21 – turno blu
Domenica 27 novembre ore 15,30- turno rosso
Note di regia
«Noi dobbiamo accettare il peso di questo tempo triste. Dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire (…)»
Risuona con tale forza e senso nelle coscienze contemporanee il monito racchiuso nella bellissima battuta con cui Edgar conclude il Re Lear, che questo suo appello potrebbe essere sufficiente a sintetizzare le ragioni che ci inducono oggi ad affrontare l’opera.
In un mondo come il nostro, in cui sempre più spesso dimentichi della realtà vera, dei valori più profondi, sembriamo inclini a giustificare qualsiasi cosa – la guerra, la violenza, la disonestà – attraverso una ridda di parole vuote, di asserzioni prive di senso, Re Lear si rivela un testo fortemente allusivo alla contemporaneità, capace di testimoniare con sorprendente intensità l’aporia che tuttora viviamo fra significante e significato, fra parola e sentimento, fra ciò che dichiariamo per convenienza e quanto invece si agita nell’oscurità del nostro animo.
Nella figura poetica di Lear si intuisce il protagonista d’una vicenda di dolenti contraddizioni, di virtù punite, di saggezza che sgorga dalla follia e dalla sofferenza, di cecità fisiche e morali che rendono impossibile addirittura ai padri leggere nei cuori dei figli… Un uomo dunque posto al centro di un universo di solitudine e illusione, in cui ogni certezza è precaria e in cui – con straordinaria precisione – si riflettono le angosce del tempo di Shakespeare e del nostro.
Angosce, sofferenze contro le quali a volte solo la follia – mimata o reale – sembra poter rappresentare uno scudo efficace.
Un mondo che a Lear appare come "un grande palcoscenico di pazzi" e che proprio attraverso il palcoscenico continua a parlarci e a muoverci alla riflessione.
Ho affrontato quest’opera, che considero una vetta assoluta della coscienza civile e poetica dell’occidente, con grande emozione e senso di responsabilità forte dell’apporto intellettuale, oltre che artistico, di una compagnia d’interpreti di notevole prestigio, a partire dal protagonista, Roberto Herlitzka a cui mi lega un lungo e fruttuoso rapporto di collaborazione, che spesso ci ha portati al Festival Shakespeariano di Verona (un ricordo particolarmente bello conservo del Sogno d’una notte di mezza estate, nel cui cast figuravano anche Mario Scaccia ed Eros Pagni).
Con gli attori e i collaboratori ho condiviso l’idea di mettere al servizio di quest’opera tutte le nostre precedenti esperienze, tutte le nostre potenzialità e tensioni, concependo veramente il mestiere del teatro – che spesso, davanti alla durezza del nostro presente, ci sembra quasi inadeguato e frustrante – in senso di grande profondità morale, e affidandogli non solo il compito di rappresentare le dilacerazioni della realtà, il disagio esistenziale ma di farsi anche testimone di valori che debbono sopravvivere.
Si tratta dei valori positivi incarnati da Cordelia – tutta protesa a non sottoporre le parole a deformazioni di comodo, a dare a ogni verbo il valore e il senso che le viene dal cuore – e da Edgar, la cui fiduciosa consapevolezza illumina la conclusione del testo.
Nell’accingerci alla messinscena, abbiamo cercato di realizzare un’utopia: quella di non scegliere fin dall’inizio una via univoca d’interpretazione che elida tutte le altre, ma di rispettare il più possibile la polisemia del testo, esprimendo la ricchezza immensa di piani di lettura, di prospettive, di nuovi orizzonti che continuamente l’opera schiude ai nostri occhi.
Ho chiesto agli interpreti di indagare a fondo nelle scene, nelle battute, poiché ognuna – appartenga essa agli altissimi monologhi di Lear o ai giochi verbali del Matto, all’adamantina autenticità di Cordelia o al partecipe contrappunto delle figure minori – ha una propria profonda necessità, cela qualcosa di misterioso.
E’ stato dunque naturale, nel passaggio dal testo alla scena, non guardare alla stretta verosimiglianza, al realismo minuto, ma puntare sull’astrazione dei personaggi, sulla dimensione metaforica della storia. Naturale, ancora, puntare su riferimenti iconografici che – sia a livello di scenografia che di costume – non rimandassero a un preciso periodo storico, ma alludessero piuttosto a una "stratificazione" di tempi e di inquietudini: elementi che nel corso dello spettacolo, a partire dal primo monologo di Edmund, divengono oggetto di una sorta di spoliazione, quasi si volesse destituire questo mondo delle sue icone, della sua ritualità.
Un teatro dunque che non intende restituire una facile imitazione della vita, ma il senso della sua ambiguità, di quell’imprevedibilità e incoerenza delle cose umane che appartengono a ogni esistenza e che trovano nella celeberrima scena della tempesta – con Lear privato del suo regno e del suo seguito, dell’amore delle figlie e in balia della furia dei venti – la rappresentazione più forte, vera e dolente.
Antonio Calenda
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