MURI prima e dopo Basaglia
con Giulia Lazzarini
con Giulia Lazzarini testo e regia Renato Sarti scene e costumi Carlo Sala musiche Carlo Boccadoro progetto luci Claudio De Pace
produzione Teatro della Cooperativa in coproduzione con Mittelfest con il sostegno di Regione Lombardia – Progetto Next con il sostegno della Provincia di Trieste
Camicie di forza, somministrazione in dosi massicce di psicofarmaci, lobotomia, elettroshock. Questo era il manicomio prima dell’entrata in vigore della legge Basaglia: un luogo di isolamento in cui, sui ricoverati (ma sarebbe più giusto adoperare la parola “internati”) si perpetrava ogni tipo di violenza e di tortura.
Nel 1972 avevo appena incominciato a fare l’attore in un piccolo gruppo teatrale a Trieste e la direzione dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale ci concesse l’uso del teatro situato nel comprensorio manicomiale a condizione che, durante le prove e gli spettacoli, fosse consentito l’accesso agli utenti. Io ero ancora un ragazzo e non ero al corrente dei grandi mutamenti che in quegli anni stavano rivoluzionando la psichiatria. Sta di fatto che per un anno mi ritrovai in un mondo di cui poco sapevo e del quale avevo solo un lontano, vago ricordo: uno zio di mio padre simpaticissimo (ma che beveva molto), ricoverato e poi morto in quell’ospedale nel 1955.
Durante le prove, nel teatro venivano spesso degli utenti. Fra questi c’era Brunetta, una ragazza lobotomizzata, che aveva marchiata sul suo volto tutta la violenza di cui le istituzioni sono capaci: pochi denti, occhi infossati, cicatrici. Insieme a una parte del cervello le avevano tolto anche la capacità di camminare diritta e l’uso della parola. Ciondolava in avanti, braccia a penzoloni, e si esprimeva a mugugni, come una scimmietta. Si sedeva con noi e non chiedeva altro che quello che per anni le era stato negato: comprensione e rispetto. Ogni gesto di affetto lo ricambiava con un sorriso che, nonostante fosse sdentato, era meraviglioso.
Nel ’74 sono venuto a Milano a fare teatro. Brunetta non c’è più da parecchi anni, ma i suoi sguardi e la sua storia fanno indelebilmente parte della mia.
L’anno scorso, in occasione del trentennale dell’entrata in vigore della legge Basaglia, raccolsi delle testimonianze con l’intento di farne un testo che partisse però dall’altra parte della barricata, quella degli infermieri. E l’aspetto più significativo della ricerca è stato quello di scoprire che l’esperienza di Basaglia non ha rivoluzionato soltanto la professione dell’infermiere: ha scardinato le ipocrisie e le arretratezze della società italiana, ha sbriciolato convinzioni che riguardavano la sfera più nascosta dell’intimo e del personale perché – come diceva Saba – il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Nel momento in cui il rispetto, la disponibilità e il dialogo prendevano il posto della prigionia e dei maltrattamenti, le lacerazioni che avevano segnato la vita degli utenti facevano venire a galla, come un tappo di sughero, le sofferenze di coloro che avrebbero dovuto curarli.
Perché la mansione principale del personale ospedaliero con l’arrivo di Basaglia non era più soltanto custodire e pulire, custodire e pulire, custodire e pulire, ma diventava il confrontarsi, dialogare, ascoltare. E allora, inevitabilmente, si metteva in moto uno strano meccanismo, in cui il confine che separa la normalità dalla follia rivelava tutta la sua precarietà.
L’infermiera del testo rivive la sua esperienza di tre decenni, riflette su quello che ha visto e vissuto in ospedale e lo fa con una nostalgia particolare (ma quela del poeta, quela che te sa tropo ben che non pol tornar), ma soprattutto con la lucidità estrema, quasi spietata, di chi si rende conto che la spinta di quegli anni si è affievolita, e rischia di finire inghiottita dall’indifferenza che – in un brusio continuo di antenne e motori – sempre di più ci avvolge e ottunde. (Renato Sarti)