LA CENA DE LE CENERI
TEATRO CAVALLERIZZA
Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Nuovo Teatro Nuovo
con il patrocinio del Centro Internazionale di Studi Bruniani – Istituto Italiano per gli studi filosofici
di Giordano Bruno
libero adattamento Federico Bellini
regia Antonio Latella
con Danilo Nigrelli, Marco Foschi, Fabio Pasquini, Annibale Pavone
idea scenografica Antonio Latella
costumi Emanuela Pischedda
luci Giorgio Cervesi Ripa
suono Franco Visioli
movimenti coreografici Deda Cristina Colonna
Martedì 17, mercoledì 18 gennaio ore 21-turno verde Giovedì 19, venerdì 20 gennaio ore 21-turno blu Sabato 21, domenica 22 gennaio ore 21-turno giallo
" è lo stesso Bruno a suggerirei di leggere
il testo come una
storia, che ogni tanto ha il sapore di una
commedia, ogni
tanto di una
tragedia, invitandoci
quasi a mangiare con lui al suo tavolo"
E se il cielo fosse un fondale?
di Federico Bellini
Londra, 1584. Un uomo piccolo di statura ma non di ingegno, proveniente da un piccolo paese vicino a Napoli, si mette alla finestra e guarda fuori. In quel preciso momento, in quell’anno, il mondo, quello che si conosce senza che ci siano cannocchiali ed altre diavolerie della tecnologia, è un mondo che si può solamente pensare. Con l’occhio il piccolo uomo guarda le stelle, le nuvole, e quanto c’è ancora, in quel momento, in quel mondo che lui può solamente vedere. Con l’occhio, l’occhio nudo. L’uomo questa mattina ha guardato il Sole, e lo ha visto muoversi. Tutti gli uomini vicini e lontani da lui hanno visto che quella palla gialla si muove. Questo si può vedere. Quella cosa, che a volte scalda, si muove. Noi siamo, apparentemente, sostanzialmente, fermi. Forse tutto crollerebbe, se ci muovessimo.
Nel 1584 Copernico aveva già da tempo dato alle stampe il De rivolutionibus. Affermava che la era la terra a muoversi e non il sole. Copernico si era fermato lì, in quel punto. Andare oltre era andare troppo oltre. Già era un rivoluzionario. Aveva superato Tolomeo, era entrato là dove non si può dire, ma forse non era entrato là dove non si può neanche pensare. Un cerchio di stelle fisse recintava il suo pensiero. Per Giordano Bruno, figlio di un uomo d’armi di Nola, questo era psicologicamente inaccettabile. Non poteva pensare che il mondo fosse uno solo e finito. Non poteva accettare, soprattutto, che il suo pensiero potesse finire là dove inizia il recinto.
Il libero pensiero, per il quale Giordano Bruno è chiamato martire, non è uno snobismo da intellettuale. Semplicemente, è una necessità della mente. Essere liberi. Essere liberi. Essere liberi. Il diktat dell’anticonformismo dell’oggi si avvita nel proprio recinto conformista. Si morde la coda. Il Trasgressivo fa una regola della propria trasgressione e finisce, animale senza mutazioni sostanziali, nel Conformista. Essere liberi. Essere liberi. Essere liberi. Verso quale schiavitù?
Quando Bruno pubblica la "Cena de le ceneri" è già scappato da un buon numero di città europee.
Le varie guerre di religione che funestano l’Europa lo hanno costretto a continui cambi di rotta. Cerca di ingraziarsi chiunque abbia un po’ di potere. E’un grande dissimulatore e un magnifico adulatore. Sovente ci riesce ed ottiene protezione. Ad Oxford tiene corsi nei quali esprime il proprio pensiero. I pedanti, i grammatici, gli asini dell’Università, lo ricacciano nel limbo di quelli che possono soltanto scrivere e sperare di essere pubblicati. Bruno lo fa. In un anno e mezzo pubblica sei opere nelle quali definisce quasi interamente la sua filosofia. E’ uno stakanovista della conoscenza. E’ un uomo che ha molto da dire. E’ un uomo che forse non ha molto tempo per dirlo.
Ma quali possono essere i suoi interlocutori? Chi è disposto, anche soltanto con la mente, ad uscire dai meccanismi del già detto e accettato, per essere liberi davvero, se questo essere liberi può coincidere con la morte? Verso quale schiavitù li vuole portare questo piccolo uomo di Nola?
Michel de Castelnau, suo protettore a Londra, è costretto a riparare in Francia. Mocenigo, il ricco veneziano che prima lo ospita e poi lo porta alla morte, davanti all’Inquisizione dice di averlo ospitato soltanto per il desiderio di imparare l’arte della memoria. Niente di pericoloso. Gli accademici inglesi lo scartano come un millantatore. La tradizione e la religione sono cose contro cui non si può lottare. Appartengono allo stesso ceppo, il ceppo dell’indicibile.
La Cena de le Ceneri non è soltanto il resoconto di un incontro avvenuto il primo giorno di Quaresima con i dottori oxfordiani Torquato e Nundinio. Come ci avvisa Bruno nell’epistola, sono molte le cose, in questo testo, da dissotterrare. Se fosse soltanto questo lungo flashback, si potrebbe parlare di una commedia scritta in volgare per quattro interlocutori utile a Bruno per esporre le sue teorie. Certo, c’è anche questo. Ma perché è scritta in questo modo, perché Bruno non racconta direttamente la cena con i personaggi che pure cita affidandoli ad altri quattro interlocutori, perché chiama dialogo, o tetralogo, quello che è effettivamente un monologo di Teofilo, con l’assenza di un qualsiasi reale contenzioso, comprendendo anche ciò che dice Smitho? Perché non spiega con esattezza il luogo dove i quattro personaggi si incontrano, guarda caso ogni volta prima di andare a cena, limitandosi a dire, con le parole di Prudenzio, e quindi forse affermando il falso, che si siederanno come i peripatetici, proprio come insegnava quell’Aristotele che in questo testo in special modo il Nolano avversa? Perché attraverso Teofilo dichiara di essere molto dispiaciuto di essere andato a cena a lume di candela e non di essere stato condotto ad un pranzo in pieno giorno?
E infine, è davvero questa una commedia, come gli aspetti spesso burleschi della vicenda lascerebbero intendere? E’ vero che non muore nessuno?
L’ansia di dire. L’urgenza di esprimersi. Nella dedica Bruno si paragona a un pittore, troppo coinvolto dalla propria opera per poterla osservare con distacco. Come un pittore, egli insegue l’ossessione e l’ossessione lo insegue. La insegue prima con la bocca, poi con le mani, proprio come chi dipinge. Rispedito tra gli scribi, dipinge un quadro a tinte forti, che si possa ancora sentire l’odore aspro, materico, del colore. Come un pittore dell’oggi, comincia dipingendo un non-luogo, dove quattro sue emanazioni (neanche Teofilo è Bruno, Bruno non esiste nel testo), forse fantasmi della mente, iniziano ad incitare uno di loro, Teofilo, appunto, a raccontare come è arrivato alla cena. Tutto è già avvenuto e tutto, tra quei quattro, ritualmente avviene. Frulla conosce già il testo, lo spartito è mandato a memoria da ciascuno. Quattro personaggi per un autore. Attori al soldo della conoscenza. Era stata davvero l’Ultima cena, come suggerisce il titolo? O forse è l’occasione rituale per riproporla, ripeterla, recitarla di nuovo in eterno come una messa laica il cui testo andrà un giorno bruciato? Dire, dire, dire per essere liberi. Teofilo dice, dice, arriva al delirio dopo aver passato tutti gli stadi della psicologia del dire, dall’autocompiacimento all’ esaltazione della sua missione, dalla paura di non avere abbastanza bocca al tormento per chi, come Prudenzio, si ostina a interromperlo. Ma tutti, nessuno escluso, lo incitano a proseguire. E a recitare bene il testo che già conosce. Sono gli assistenti di Teofilo, i loro commenti riguardano la forma della recitazione, quasi mai il contenuto, che già sanno. Giacché Teofilo è un grande attore, e Bruno un grande autore, tutto, nella recita, fila liscio. Fino all’irruzione nel racconto dei convitati alla cena, in particolare i due dottori con i quali Teofilo deve discutere, che crea il cortocircuito narrativo per cui alla teatralità, all’essere animale teatrale di Teofilo, succede il suo essere filosofo, il reportage fedele della sua visione cosmologica, e dunque della visione cosmologica di Bruno. Dal viaggio all’inferno di Teofilo verso la cena, burlesca acrobazia linguistica e teatrale, si passa alla severa ricognizione della materia filosofica, in uno scenario dove la decadenza del sapere è frontalmente in contrasto con la portata del pensiero del Nolano. Dire, dire, dire, dire ancora. E’ sempre questa la ricetta che Bruno, attraverso Teofilo, propone al suo pubblico. Dire contro la decadenza, perché tutto è decadenza, tutto ha i segni della fine imminente, forse della fine già avvenuta, dall’astrazione incancrenita nelle formule dogmatiche all’ostentazione mortifera e barocca degli abiti dei deboli contendenti, fino all’acqua che tutto pervade, birra puzzolente nella bocca degli accademici e pantano, buazza da dove si cerca di uscire almeno a mezzo ginocchio, alla ricerca del luogo, della Zona dove si può ancora parlare. Perché per gli uomini non ci sarebbe cosmo se non ci fosse la possibilità di parlarne, perché l’infinito non sarebbe così infinito, per gli uomini, se a nessuno fosse data l’occasione di affermarlo.
Forse è proprio qui una delle chiavi di lettura più forti di questo testo. In questa dialogale senza dialogo, in questa disputa senza contendenti si intravede l’idea, l’immagine quasi pittorica della assoluta solitudine dell’uomo Bruno, che, da grande burattinaio, da vita alla più grande forma di isolamento intellettuale, l’utopia di parlare pubblicamente a se stesso. E così facendo, parlandoci dell’infinito non smette di porci di continuo di fronte alle miserie del finito, tramandando di riflesso un mondo dove la dimensione del dire, del provare a dire, è di fatto bandita, violentata, annichilita da quella decadenza che è prima di tutto assenza di ascolto, se non il tappo assordante dell’omertà, quella stessa che gli ha fatto finire i suoi giorni, prima che sul rogo, con la mordacchia a chiudergli la bocca.
E quel cielo, quel cielo che ha guardato in quell’ immaginario mattino, dev’essergli apparso per una volta miseramente finito, anch’esso opera di un bravo pittore, o di un buon scenografo. Come troppo spesso, oggi, può capitare anche a noi, piccoli Truman di una inconsapevole recita.
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