COMPAGNIA VIRGILIO SIENI
Fuori abbonamento
Tristi Tropici
liberamente ispirato a Claude Levi-Strauss
ideazione, regia, scene e luci Virgilio Sieni
Interpretazione e collaborazione
Simona Bertozzi, Ramona Caia, Elsa De Fanti, Filippa Tolaro, Michela Minguzzi
Musiche originali Francesco Giomi
Luci Marco Santambrogio
Costumi Lydia Sonderegger
Maschere e elementi scenici Chiara Occhini
Allestimento Francesco Pangaro
Suono Matteo Ciardi
produzione 2010 La Biennale di Venezia, Spielzeit’europa I Berliner Festspiele, Bitef Theatre Belgrade
nell’ambito del progetto ENPARTS – European Network of Performing Arts
con il sostegno del Programma Cultura della Commissione Europea
in coproduzione con Biennale de la Danse de Lyon, Teatro Stabile di Napoli, Compagnia Virgilio Sieni
La Compagnia è sostenuta da Ministero per i Beni e le Attività Culturali- Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo,
Regione Toscana, Comune di Firenze
Lo spettacolo è liberamente ispirato a Tristes Tropique di Claude Lévi Strauss.
Virgilio Sieni non mette in scena una trascrizione letterale del testo: in scena due coppie di donne (le danzatrici Simona Bertozzi, Michela Minguzzi, Ramona Cia, Elsa De Fanti) e una ragazza non vedente (Filippa Tolaro). Figure che appaiono da lontano come aloni non definiti, visione opache, figure vicine e dipendenti, coppie che “si stringono nella nostalgia di un’unità perduta”.
Lo spettacolo di sviluppa in tre parti in cui le apparizioni femminili sono individuate come una presenza “penultima”, secondo un percorso tripartito tra vicinanza animale, tenerezza trasmessa, nostalgia rimasta che alimentano il senso di quello che l’etnologo definisce “l’opportunità perduta dell’Occidente di restare femmina”.
Tristi tropici apre all’agonia e al richiamo abbagliandoci di eterna nostalgia, lasciandoci intravedere la sedimentazione del rito nel suo divenire gesto tra animalità e umanità.
Così Virgilio Sieni spiega la genesi del lavoro:
nell’estate 2008 ad Avignone, dopo aver discusso con Giorgio Agamben di danza, cous cous e inoperosità del corpo, ripresi in mano un suo saggio sul bricolage dedicato al settantacinquesimo compleanno di Claude Lévi-Strauss.
Fu li che decisi di lavorare su quegli “straccioni sperduti in fondo alla loro palude” e come il loro abbrutimento aveva tuttavia preservato certi aspetti del passato: aspetti riflessi in decorazioni corporali e facciali di carattere ancestrale e rapporti di parentela tra gerarchie cosmiche e miti.
Corpi e popoli che mostrano un possibile legame con l’inaccessibile indicandoci un barlume di speranza. E ancora una volta ho sentito un forte desiderio rivolto alla danza, non tanto come forma metrica, simbolica, poetica, ma come esperienza dell’inerzia, come esercizio di rianimazione lungo il processo di disintegrazione dell’uomo.
Non possono esserci racconti ma deiezioni fisicamente fraseggiate dei racconti sui gruppi dei Tupi-kawahib, Nambikwara, Caduvei, Bororo fatti da Lévi-Strauss nel suo viaggio intorno agli anni ‘40 nelle terre del Mato Grosso (grande Macchia) in Brasile. Popoli già alla deriva ma ancora vivi dove le “donne nobili” ci richiamano a quella che Lévi-Strauss definisce l’occasione perduta che era stata offerta all’Occidente di scegliere la sua missione.
Alcune considerazioni e riflessioni sull’animalità e l’umanità fragile di questi teneri straccioni in agonia, belli e malati, così come mi appare dalla lettura di Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss :
“Alcune decine di metri di foresta bastano per abolire il mondo esteriore, un universo cede il posto ad un altro, meno piacevole alla vista, ma dove l’udito e l’odorato, i sensi più vicini all’anima, hanno la loro soddisfazione. Beni che si credevano scomparsi riappaiono: il silenzio, la freschezza e la pace. L’intimità col mondo vegetale concede quello che il mare ormai ci rifiuta e che la montagna ci fa pagare a caro prezzo.”
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Qui si parla dell’agonia e della bellezza poste sul piano denso del corpo e delle capacità di inscrivervi segni, di stratificarvi la materia sottile del movimento ricercato: così il gesto e la danza tengono a galla i legami e le relazioni, sembra che frantumino la coreografia.
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In queste tribù visitate da Lévi-Strauss è sedimentato il seme dell’uomo proiettato verso la trascrizione di un sistema sociale adatto a viverci nella grandezza indefinibile degli inizi, nell’infanzia dei popoli, e che pone noi occidentali come responsabili della loro distruzione.
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E in questo nostro peregrinare affiora il desiderio di costruzione e gioia epifanica tradotti nella pratica della danza che diviene essa stessa rifugio, fuga, missione, scopo della vita. In questo senso indico ai danzatori di agire da bontemponi e scienziati del corpo allo stesso tempo.
Tristi Tropici apre all’agonia e al richiamo abbagliandoci di eterna nostalgia, lasciandoci intravedere la sedimentazione del rito nel suo divenire gesto, corpo vitale che guarda al gioco come evento. Indico a loro come muoversi sui piani orizzontali del corpo che sospendono i pesi secondo un continuum di rotazioni.
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Dall’incontro di quelle tribù, oggi scomparse, siamo invitati ad alimentare il dubbio sulla nostra ignoranza, e qui, rivolgendomi all’analfabetismo strutturato, tra radici e codici, del danzatore, vorrei alimentare quella tenerezza e quella sensazione del tempo dell’incanto e del leggero movimento, intesi come nutrice e madre.
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Penso all’ingegno che elabora il dubbio nella danza presentando il corpo attraverso un atlante di figurine sbilenche tra scultura e fantasma, tra sradicamento e missione. Come una “chirurgia pittorica che opera una specie di innesto dell’arte sul corpo umano.”
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Attraversiamo così l’immagine che ci ritorna di quelle tribù, in un completo senso di non dimora, che si affaccia ai mondi della densità asiatica, così come agli appetiti dei nostri indigeni, per meglio dislocarci in un pessimismo che lascia aperture infinitesimali da porre sul piano della nostalgia come tempo dello struggimento. Il corpo ritorna radice profonda che annuncia continuamente il senso della natura.
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In questo peregrinare lungo il sentiero della danza, sembra a volte che sia necessario fare vuoto e farsi vuoti. E dunque, il punto che emerge, si pone in primis come una domanda: di quale vuoto si tratta? Cos’è questo senso di dispersione e apertura necessario al percorso intrapreso? E ancora, è forse in questo farsi largo, depositando gli arti e riattivando il corpo, che la foresta si presenta a noi?
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E quale potenza appartiene alla danza che si impossessa e possiede il corpo dell’individuo e, come l’individuo, agisce sempre come fosse alle prime armi ponendo la propria esperienza in contrapposizione con la storia e la stratificazione dei codici che continuamente, pure loro, devono scegliere la missione che gli è data, procedere e affinare per liberare l’uomo dalla gravità unilaterale e restituirlo come individuo del tutto che si opera per elevarsi e fuoriuscire dalla materia del corpo, preservando la capacità di volare.
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Leggendo Tristi Tropici non ho tentato minimamente una trascrizione letterale ma ho provato a trascrivere sui corpi di due coppie di donne e una ragazza non vedente, una tenera e angosciante vicinanza e dipendenza. Proprio attraverso la danza, si è riproposta la crisi e la fame di assaporare qualcosa che si facesse largo.
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La coppia femminile non mi lascia via di scampo in questo percorso di ricerca. Non introduce una missione ma fa intravedere un destino, l’inerzia che incombe. Tuttavia, questo cercare il vuoto (vuoto di scena, di oggetti, di corpi), agisce come richiamo alle pieghe del corpo, al suo apparire per la prima volta, alla bellezza dunque. Simona e Michela stanno in poco spazio, si attraggono a vicenda, inscrivendo un arco tenue di accostamenti con il corpo restituito ai suoi contorni, ai margini che palesemente contengono e sostengono gli organi.
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Ho pensato di far apparire qualcosa come aloni lontani, figure non definite ma smussate nei margini; nelle gesta di avvicinamento l’una all’altra o nel semplice stare di fianco e appoggiate, dar vita ad atlanti minimi che raccogliessero i gesti “penultimi”, sorta di adagi circoscritti e ad occhi chiusi per non vedere la fine.
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“Ma, fra l’uomo e la terra, si era stabilità questa specie di reciprocità”.
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Ho volutamente ricalcato la struttura dello spettacolo precedente ispirato al De Rerum Natura di Lucrezio: lì tre parti su Venere come fonte d’incanto e di delizia secondo un’idea coreografica fondata sul senso del clinamen e il rapporto con la fisiologia e lo sviluppo del corpo umano nel corso del tempo, parti racchiuse dall’apparizione profetica, misteriosa e letterale allo stesso tempo di due animali: un cavallo nero all’inizio e un cervo alla fine. Qui le tre parti aprono ad un dimensione dove le descrizioni di Lévi-Strauss sulle tribù visitate nel Mato Grosso negli anni Trenta, si dipanano nelle apparizioni femminili, individuate come una presenza “penultima”, secondo un percorso tripartito tra vicinanza animale, tenerezza trasmessa, nostalgia rimasta, che alimentano il senso di quella che l’etnologo definisce “l’opportunità perduta dall’Occidente di restare femmina”. Così Ramona agisce sul suo corpo come una collaudatrice che scopre la simmetria, sovrapponendo le varie parti e senza distruggere quelle preparatorie, che, a loro volta, alimentano le tappe sviluppate. Così Elsa non ha perso la morale del suo percorso e agisce sottraendo, come se volesse finire l’azione senza il proprio corpo.
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“Le coppie si stringono nella nostalgia di una unità perduta qualche cosa che somiglia all’espressione più commovente della tenerezza umana.”
Ramona e Elsa bontempone e puri fantasmi ma anche straccione tenere, madre e figlia.
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Tre parti che si aprono con l’uscita di scena di un pavone e si chiudono con lo sguardo di due uccelli: cioè dalla sottrazione che le folle asiatiche procurano alla densità, alimentando una condizione da noi inaccettabile, per finire nostalgicamente nel tentativo di stare dalla parte dell’animale; tra affettività e intellettualità, natura e cultura, animalità e umanità, un tutto che si riversa nel “noi”, nella pietà.
“L’uomo non ha fatto che dissociare allegramente miliardi di strutture per ridurle a uno stato in cui non sono più suscettibili di integrazione. Senza dubbio ha costruito delle città e coltivato dei campi; ma, se ci si pensa, queste cose sono anch’esse macchine destinate a produrre dell’inerzia a un ritmo e a un ritmo e in una proporzione infinitamente più elevata della quantità di organizzazione che implicano. Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando egli sarà scomparso. Cosicché la civiltà, presa nel suo insieme, può essere definita come un meccanismo prodigiosamente complesso in cui saremo tentati di vedere la possibilità offerta al nostro universo di sopravvivere, se la sua funzione non fosse di fabbricare ciò che i nostri fisici chiamano entropia, cioè inerzia.”
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Questa matrice lucreziana di Lévi-Strauss nelle descrizioni come fonte d’incanto che ci indicano la via poetica attraverso le fondamenta della natura e nel rapporto dei segni che si ripetono cosmicamente, ha guidato il lavoro verso una struttura particolareggiata di segmenti coreografici, ognuno suddiviso secondo tre tragitti:
– il corpo invisibile: visioni opache di gesti misteriosi e nebulosi come ambientati nel Pantanal, la palude; meccanismi per rendersi invisibili come tingersi il corpo di nero o cerchiarsi gli occhi, così come infilarsi delle montature di occhiali senza lenti per sentirsi invisibili appunto; Dorina che non vede, ma trascrivendo l’intorno sembra sospendere il cammino, sembra “compiere la sua opera nello stesso tempo che chiude la sua prigione”. Dorina l’invisibile ci indica forse le altre funzioni lucreziane degli organi, il percorso della vista che avviene nel momento che l’oggetto muore dentro: che dice la danza in lei?
– contorno e margine: sui corpi come statuette animate, automi tra rito e gioco, figure nere come sequela numerata di disegni e decorazioni asimmetriche; anche la struttura cosmica del villaggio dei Bororo, così come le decorazioni corporali dei Caduvei hanno richiamato un atteggiamento che ha dislocato alcune danze dal centro esatto verso le vie mediane secondo movimenti dialoganti, figurativi e irregolari.
– la natura e l’uomo nel suo stare dalla parte dell’animale, della pietà, del noi.
Virgilio Sieni
I brani tra virgolette sono estratti da
Claude Lévi Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano 1960
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