BUKOWSKY
musiche Velotti – Battisti jazz ensemble
canzoni Giuseppe Fulcheri
luci Jean Claude Asquié
elementi scenici Lorenza Gioberti
costumi Guido Fiorato
in collaborazione con minimum fax
Venerdì 26 marzo 2004, ore 21.00: turno verde
sabato 27 marzo 2004, ore 21.00: turno giallo
domenica 28 marzo 2004, ore 15.30: turno rosso
In una vecchia stanza trasandata, a metà tra una camera d’albergo decaduta e un locale notturno di infima categoria, è accampato Bukowski. Tra sedie sfondate, strumenti musicali, bottiglie vuote e una miriade di gatti randagi che appaiono ovunque, Buk ci racconta il suo congedo dalla vita. Tra poesie, canzoni, pensieri e racconti recuperati dalla enorme produzione del poeta, assistiamo all’ultimo show del performer, che canta, irride, si traveste da donna, gioca con le parole e la musica raccontandoci in un particolarissimo spettacolo/concerto la sua idea della vita: sesso e birra, musica e letteratura, amore e solitudine. Su tutto aleggia l’idea dell’addio, che corteggia e irride la morte, con parole ironiche, spregiudicate e feroci.
Sul palco oltre ad Haber – Bukowski, uno straordinario ensemble di jazzisti che contrappunta le parole di Buk, ricavate totalmente dalla sterminata produzione poetica dello scrittore americano, trasformata in canti, invettive, preghiere, racconti: le confessioni di un genio strambo e anticonformista.
Prendete ad esempio uno come Charles Bukowski, uno che ha passato la sua esistenza a cercar di mettere su carta il grumo ruggente di malinconia che lo faceva bere e sembrare e vivere come un rozzo orso inselvatichito, affamato di sesso e di alcool: è una storia jazz d’altri tempi. Il fatto è che le sincopi, i profumi di timbri preziosi da scovare nel tam tam di rumori di fondo delle periferie, il ritmo carsico che innerva le parole sono del jazz, e se provate a leggere una qualsiasi delle sgradevoli, petulanti, tenerissime poesie dell’avvinazzato Bukowski il jazz pulsa dentro malgrado e oltre ogni petizione di principio (ad esempio quella per cui Bukowski nelle sue stanzette luride e lise ascoltava musica sinfonica).
E’ con tutte queste cose in testa che Giorgio Gallione, regista e drammaturgo del Teatro dell’Archivolto di Genova ha pensato il suo Bukowski – storia di un genio, prevedendo che sulla scena ci fossero due elementi imprescindibili: l’etilico, frastornante, insensato disordine di cose e idee di Bukowski, e un gruppo jazz vero, pronto a rispondere in tempo reale alla tempesta di parole di Bukowski. Il gruppo è Velotti – Battisti Jazz Ensemble, solido e inventivo quartetto di strumentisti.
In scena Haber – Bukowski con le bottiglie nella stanza ossessionata dalla sporcizia, dai gatti randagi, e da quella macchina da scrivere che attende di essere sfamata a forza di parole battute, ed è teatro e vita assieme, e jazz pulsante: perché Haber modula il flusso di parole (tutte di Bukowski, sia chiaro) sulle nervature ritmiche del gruppo, si lascia spingere, si appoggia sulle volute di suono, prende le distanze e torna a tuffarcisi a picco.
Il Manifesto
All’appuntamento col "dirty old man" cantore del sesso e della birra, e della fottuta umanità, e della morte, Haber arriva da tempo con una devozione dissipatrice e una spregiudicatezza da night, come un Leonard Cohen corpulento nell’immaginario di un Tennessee Williams. In Bukowski, confessioni di un genio con regia e drammaturgia di Giorgio Gallione per l’Archivolto, attorniato dal Velotti – Battisti jazz ensemble, si mostra (generosamente) coinvolto più dalla solitudine che dalla ferocia, vive più lo sfiorire anticonformista che l’incazzatura oscena dell’autore americano di tante, tante poesie – contro. Anche Gallione lo costringe bene a una parabola che inizia addirittura col protagonista di spalle ammantato di lunga parrucca biondo platino, guanti rossi, gonna, tacchi alti (con quei polpacci!) per inneggiare alle donne feticcio. E dopo questa proiezione grossolana c’è una lenta, svaccata metamorfosi che in un vano d’albergo o di sudicia tana – appartamento mira a sbozzare l’omone memore di prostitute e di pazze, dedito a bevute, attratto dalle sporcizie ma anche raccontatore di un padre ingordo, di tempi duri per la poesia, di amori che scappano come topi giù per le fogne, con la certezza sua di lasciare una "pila di niente".
la Repubblica