BORIS GODUNOV
BORIS GODUNOV
Opera di un prologo e 4 atti di MODEST MusorgskiJ
Riorchestrazione di Dmitry Shostakovich
Libretto proprio, dalla tragedia omonima di Aleksandr Puškin e dalla Storia dello stato russo di Nikolaij Karamzin
IN LINGUA ORIGINALE CON SOVRATITOLI
Boris Godunov: Alexey Tikhomirov (3 marzo), Alexander Kiselev (4 marzo)
Feodor: Ilya Ilin
Ksenja: Marina Kalinina
Il principe Vasilij Shujskij: Vadim Zaplechny (Honored artist of Russia)
Andrey Shchelkalov: Petro Morozov
Pimen: Stanislav Shvets(3 marzo), Dmitry Skorikov (4 marzo)
Simpleton Grigory: Dmitry Ponomarev (3 marzo), Nikolai Dorozhkin (4 marzo)
Marina Mniszek: Ksenia Viaznikova (3 marzo), Elena Ionova (Honored artist of Russia) (4 marzo)
Rangoni: Sergei Toptygin (3 marzo), Igor Tarasov (Honored artist of Russia) (4 marzo)
Ostessa: Maria Maskhulia
Varlaam: Alexey Dedov
Missail: Andrey Palarmarchuk (3 marzo), Vladimir Bolotin (4 marzo)
Mityukha: Artem Chulkov
Donne: Natalia Arkhipova, Marina Beletskaja, Olga Zhilina, Elizaveta Serysheva
Direttore: Dominique Rouits
Regia: Dmitri Bertman
Scene: Igor Nezhny
Costumi: Tatiana Tulubieva
Luci: Damir Ismagilov
Coreografia: Edwald Smirnov
Maestro del coro: Denis Kirpanev
ORCHESTRE DE MASSY
Coro dell’Opéra-Théâtre Hélikon
Assistente alla regia: Yury Ustyugov/Natalia Dychenko
Maestro di canto: Sergei Chechetko
Referente costumi: Ekaterina Fokina
Referente accessori: Olga Veretina
Trucco e acconciature: Svyatoslava Ossipova
Direttore generale: Viktoria Pavlova
Direttore di scena: Rostislav Protassov
Nuovo allestimento in esclusiva per l’Italia, organizzato da JUST IN TIME Art Management
Produzione HELIKON OPERA THEATRE, Mosca, Opera de Massy, France in collaborazione produttiva con Fondazione I Teatri, Reggio Emilia, Italia.
3 marzo 2007 . ore 20.00 4 marzo 2007 . ore 20.00
Teatro Valli
Opera di un prologo e 4 atti di Modest Musorgskij
libretto proprio, dalla tragedia omonima di Aleksandr Pushkin e dalla Storia dello stato russo di Nikolaij Karamzin
Dramma musicale popolare in un prologo e quattro atti
Prima:Pietroburgo, Teatro Mariinskij, 27 gennaio [8 febbraio] 1874
Personaggi:Boris Godunov, zar di Russia (B); Fëdor (Ms) e Ksenija (S), suoi figli; la nutrice di Ksenija (A); il principe Vasilij Šujskij, boiaro (T); Andrej Šcelkalov, segretario della duma (Bar); Pimen, monaco e cronachista (B); il pretendente Grigorij, novizio affidato a Pimen (T); Marina Mniszech, figlia di un nobile polacco di Sandomir (Ms); Rangoni, gesuita (B); Varlaàm (B), Misail (T), vagabondi ex monaci; l’ostessa della taverna al confine lituano (Ms); l’Innocente (T); Nikitic, guardia (B); un ufficiale di polizia (B); Mitjucha, uomo del popolo (Bar); un boiaro di corte (T); Chrušcov, boiaro (Bar); Lavickij, Cernikovskij, gesuiti (Bar); boiari, Strel’cy, soldati, guardie, nobili polacchi, ragazze di Sandomir, pellegrini erranti, popolo di Mosca, monelli, vagabondi
Pietra miliare della scuola russa, destinata a influenzare una larga parte del Novecento europeo, Boris Godunov, nelle due versioni ‘autentiche’ moltiplicate dalle revisioni, è anche il prototipo del moderno ‘work in progress’. Il suo lungo e complicato cammino inizia nel settembre del 1868 in casa della sorella di Glinka, la ‘dolce colomba’ Ljudmila Schestakova che, dopo la morte del fratello, raduna attorno a sé gli artisti e gli intellettuali della nuova generazione, impegnati a realizzare una cultura autenticamente russa. In questo ambiente culturalmente e umanamente elevato, Vladimir Nikol’skij, storico e studioso di Pushkin, richiama l’attenzione dell’amico Musorgskij sul dramma della follia e della morte dello zar Boris, vergato dal sommo poeta nel 1825. Il suggerimento provoca un vivo interesse: come incoraggiamento, la Shestakova invia a Musorgskij il volume di Pushkin, inserendo tra le pagine stampate alcuni fogli bianchi. Musorgskij non tarderà a usarli producendo, in un quadriennio, le due versioni del suo capolavoro. Quando riceve dalla vecchia amica il prezioso testo, arricchito dai fogli candidi, il musicista non ha ancora trent’anni: ha studiato con Balakirev, si è liberato dalla sua tutela e si è lanciato alla ricerca di uno stile nazionale e popolare, lontano sia dall’opera italiana cara all’aristocrazia sia all’opera tedesca coltivata dagli occidentalisti. La produzione di liriche e l’esempio di Dargomyzshkij l’hanno condotto a scoprire la potenza della parola, la ‘verità’ dei personaggi, delle situazioni, del linguaggio. Elementi da contrapporre alla mera ‘bellezza’, a tutto ciò che suona soltanto melodico e piacevole, atto a cullare l’immaginazione anziché a stimolarla. In un’ottica tanto diretta – egli stesso si definisce un cavallo lanciato in un’unica direzione – la rilettura della tragedia di Pushkin è determinante. Nella vicenda, elaborata dal poeta sulla scorta del decimo e dell’undicesimo volume della Storia dello stato russo di Nikolaij Karamzin, il musicista trova la materia necessaria a un autentico ‘dramma popolare’: un dramma di cui l’uomo russo – frate spretato, boiaro o zar – sia protagonista.
L’epoca (tra il 1598 e il 1605) è tra le più fosche dello stato moscovita. Morto Ivan il Terribile nel 1584, restano due eredi: il maggiore, Fëdor, figlio di primo letto, e un bimbo di due anni, Dmitrij, nato dall’ultimo matrimonio dello zar (il settimo, pare) con Maria Nagaja. La corona toccò a Fëdor, sebbene fosse debole di cervello. I sudditi lo chiamavano affettuosamente durak , ‘imbecille’, lodandone la mitezza e la religiosità. «Regnava meglio con la preghiera che con l’intelligenza», si diceva. Occorreva perciò un reggente per gli affari di stato. E questi fu, dopo un breve interregno, Boris Fëdorovic Godunov, uomo di notevole carattere e abilità, che lo stesso Ivan aveva avvicinato al trono dando in moglie a Fëdor la sorella di Boris, Irene. L’alta posizione doveva provocare invidie e malcontenti, soprattutto fra i boiari che, domati da Ivan, speravano di rialzare il capo sotto il figliolo deficiente. Non mancarono le congiure, ed è ovvio che qualcuno pensasse di richiamare il piccolo Dmitrij, prudentemente allontanato assieme alla madre nella lontana città di Uglic. I progetti, comunque, sfumarono quando il ragazzo morì a nove anni, il 15 maggio 1591, con la gola squarciata da un coltello. Chi aveva inferto il colpo mortale? Un’inchiesta ordinata dallo zar Fëdor e da Boris Godunov stabilì che Dmitrij, notoriamente epilettico, si era ferito durante una crisi con un coltello da lui stesso impugnato. Numerose testimonianze giurate, raccolte da Vasilij Shuiskij, convalidarono la versione. I nemici di Boris sostennero invece che i testimoni erano stati corrotti o intimiditi per coprire il reggente assassino che, con la scomparsa del fanciullo, si sarebbe assicurata la successione. Questa, in realtà, era ancora lontana. Nel 1591 Fëdor, per quanto debole di mente, era forte di corpo, tanto che visse fino al 1598, in pieno accordo con il reggente e con la moglie Irene, da cui ebbe anche una bimba. L’accusa risuonò ancora più forte quando Boris, cinta la corona, riprese da zar la politica di Ivan diretta all’unità dello Stato. Tutti si rivoltarono: boiari e plebe all’interno del paese, mentre alle frontiere malsicure i polacchi e la chiesa cattolica attendevano l’occasione per smembrare il regno e abbattere la fede ortodossa. In questa situazione, la voce dell’assassinio dello zarevic riemerse con una fantasiosa variante: Boris aveva tentato ma fallito il colpo; il bimbo, salvato e cresciuto sotto falso nome, era vivo. La riapparizione avviene in Polonia dove il falso Dmitrij (forse un novizio fuggito da un convento), proclamatosi figlio di Ivan, ottiene la mano dell’ ambiziosa Marina Mniszech, figlia del voivoda polacco di Sandomir, raduna un esercito di profughi russi, nobili polacchi e avventurieri e, con la benedizione del pontefice Clemente VIII, parte alla riconquista del regno. L’improvvisa morte di Boris a soli 53 anni, nell’aprile 1605, fece precipitare la situazione. I generali russi passarono al pretendente, che venne incoronato. Il primogenito di Boris, Fëdor, fu assassinato, mentre Ksenija, «la colomba pura», diventata la concubina dell’usurpatore, morirà in convento nel 1622. Dmitrij, a sua volta, venne fatto a pezzi dopo un anno di regno (e le sue ceneri sparate da un cannone) quando i russi si ribellarono alla sopraffazione polacca e cattolica. Si salvò Marina, per lanciarsi in un’avventurosa esistenza unendosi a un secondo e poi a un terzo falso Dmitrij, apparsi e scomparsi, mentre sul trono di Mosca si succedevano Vasilij Shujskij, il re di Polonia Sigismondo e infine Michele Romanov, fondatore della dinastia regnante fino al nostro secolo. Della torbida vicenda, Pushkin coglie il nodo centrale, secondo l’interpretazione del grande storico cui rende un reverente omaggio sul foglio di risguardo: «Alla memoria – preziosa per i russi – di Nikolaij Michailovic Karamzin – questo lavoro ispirato dal suo genio – con devozione e gratitudine dedica Aleksandr Pushkin». La narrazione, dall’ incoronazione di Boris all’uccisione dei suoi figli, non è continua come nella tragedia classica, ma è shakespearianamente spezzata in ventitre quadri (più due eliminati nella prima edizione), concisi ed essenziali, come se l’autore, aprendo uno spiraglio sul panorama della storia russa e chiudendolo immediatamente, offrisse al lettore una serie di fulminei scorci. «Questo montaggio di opposte sequenze, questo caleidoscopico svariare di siti e di ambienti», come lo descrive Angelo Maria Ripellino, è già caratteristico delle prime opere russe, dal Ruslan e Ljudmila al Convitato di pietra, ricavati anch’essi da Pushkin. La forma o, meglio, la libertà di forma, conviene perfettamente a Musorgskij che, utilizzando quanto gli occorre, ricava sette scene dal vasto affresco. Abbozzato e scartato un ottavo episodio (l’incontro di Marina e Grigorij presso la fontana), la prima stesura dell’opera risulta così articolata in sette quadri: 1) prologo, dove la folla e il clero invocano Boris; 2) incoronazione; 3) cella di Pimen, dove il monaco-cronista racconta al novizio Grigorij la morte dello zarevic; 4) osteria al confine lituano, dove Grigorij fugge; 5) appartamenti dello zar, con l’annuncio della rivolta e i rimorsi di Boris; 6) davanti alla cattedrale di San Basilio, dove l’Innocente rifiuta di pregare per lo zar Erode; 7) morte di Boris.
Questo è il primo Boris, l’ Ur-Boris composto, in uno slancio di furore creativo, tra l’«ottobre 1868» (annotato dall’autore sul volume donatogli dalla Shestakova) e il 22 maggio 1869 quando termina lo spartito per canto e piano. Il 15 dicembre successivo Musorgskij appone la parola «Fine» sotto la partitura orchestrale. La stesura, come si vede, procede senza soste, in uno stato di febbrile esaltazione dettato dalla certezza di avere finalmente trovato «gli ingredienti per cuocere la zuppa» evocati nella lettera a Nikol’skij. In soli otto mesi (oltre i sette per la strumentazione) si realizza il lavoro «radicato nella patria pianura e nutrito di pane russo» che, in una precedente lettera (del 12 luglio 1867) al medesimo amico, appariva ancora una meta lontana. Oggi, percorrendo a ritroso la lunga strada dalle prime liriche a Salammbô e da qui all’incompiuto Matrimonio, appaiono chiare le tappe che guidano al primo Boris. Ma il risultato non è meno sorprendente. Tutto appare nuovo e ardito in questo compatto torso: dalla scelta di un testo sospetto alle autorità politiche e musicali alla originalità della realizzazione. Si capisce perché, davanti a quest’opera scritta di getto, si stenda ancora una strada lunga e accidentata. L’autore però è ottimista. Terminata l’orchestrazione si affretta a sottoporre la partitura ai Teatri Imperiali. Una prima risposta gli arriva dal direttore Stepan Gedeonov: «Mi ha detto – comunica Musorgskij alle sorelle Aleksandra e Nadezhda Purgold – che quest’anno non possono rappresentare nulla di nuovo, tuttavia potrebbe chiamarmi verso la metà d’agosto o ai primi di settembre per spaventarli col mio Boris ». La data dell’audizione non è nota. Sappiamo invece che i membri della Commissione di lettura respinsero l’opera nella riunione del 10 febbraio 1871, mettendo nell’urna sei palle nere e una bianca. Una settimana dopo, la decisione fu trasmessa ufficialmente all’interessato, a cui però la notizia era già stata comunicata in privato dalla Shestakova. Qui le versioni divergono. Secondo la Shestakova, l’unico motivo del rigetto era la mancanza di una importante parte femminile. Nelle memorie di Rimskij-Korsakov, invece, vengono accentuati «la novità e il carattere inconsueto della musica». Da ciò l’irritazione dell’«illustre comitato che, fra l’altro, rimproverò all’autore la mancanza di una consistente parte femminile». Comunque sia, Musorgskij si dedicò immediatamente alla revisione dell’opera. Due mesi dopo la sentenza della Commissione, appone sotto la nuova scena del boudoir di Marina la data 10 aprile 1871. L’inserimento del personaggio femminile porta con sé altri sviluppi. Il 10 agosto, con una lettera semiseria, informa l’amico Vladimir Stasov che «Boris, zar colpevole, sta perpetrando un arioso». Il mese successivo (11 settembre) ancora un annuncio a Stasov: «Abbiamo rifatto a nuovo Griska» e «si sta pensando ai vagabondi». È il primo accenno al quadro della foresta di Kromij, che lo occuperà sino a novembre. Il quadro della fontana, l’orchestrazione e i ritocchi lo impegnano sino all’estate successiva. Infine, può notare in calce alla partitura «22 giugno 1872, a Pietroburgo, M. Musorgskij» e l’11 luglio depone rispettosamente la nuova partitura ai piedi di Ljudmila Shestakova: «Accogliete il mio Boris sotto la vostra protezione, affinché con voi, benedetta, esso inizi la sua stagione pubblica». I quindici mesi di lavoro intenso hanno dato all’opera una fisionomia largamente rinnovata: un quadro, quello davanti a San Basilio, è soppresso; ai rimanenti sei, quasi tutti rimaneggiati, se ne aggiungono tre nuovi. In totale, il secondo Boris comprende nove quadri.
Come si vede, il rifacimento è radicale: il dramma dello zar, la figura del pretendente e la partecipazione del popolo acquistano nuove dimensioni. L’inserimento dell”atto polacco’, lamentato dai puristi come concessione melodrammatica, è in realtà un momento fondamentale. La figura dell’usurpatore si delinea, preparando la sua apparizione alle porte di Mosca. Lo stesso personaggio di Boris acquista, nel nuovo contesto, un carattere più doloroso. L’avevamo già visto, oppresso dal fato, nella scena dell’incoronazione. Lo incontriamo di nuovo nelle sue stanze, ove non può trovar pace neppure in seno alla famiglia. Non a caso il musicista rielabora a fondo questo quadro. L’aggiunta del vasto arioso, di cui si dichiara particolarmente soddisfatto, e il misterioso effetto dei carillon, ingigantiscono l’angoscia del protagonista. Egli non è soltanto l’uccisore del fanciullo, è un uomo lacerato dai rimorsi e dalla coscienza della vanità del delitto. A differenza di Macbeth, Boris appartiene al popolo: è russo anche quando il paese gli si solleva contro. La violenta esplosione della folla moscovita corona l’opera dando al popolo un ruolo di protagonista. Così l’intese l’amico Nikol’skij, che, proseguendo nella funzione di padrino del Boris , suggerì a Musorgskij di spostare la nuova scena, che avrebbe dovuto precedere la morte dello zar, alla fine dell’opera. Suggerimento adottato con entusiasmo, lasciando al fido Stasov il rammarico di non averci pensato lui! La rivolta però è vana. Musorgskij rimane il pessimista di sempre e l’ultima parola spetta all’Innocente: «Spargete amare lacrime, piangi anima ortodossa… Piangi popolo russo, popolo affamato». Non è ancora giunto il momento in cui «l’energia della nera terra contadina venga fuori». Qui, come nella successiva Chovanshina , il retaggio dei miseri è il pianto. Pittura comunque sovversiva agli occhi delle autorità. Rifiutando il primo Boris per il suo anticonformismo, la direzione dei Teatri Imperiali aveva provocato la nascita di un lavoro ancor più sconcertante. Non stupisce che anche il rifacimento venga respinto. Evidentemente non era l’assenza del ruolo femminile a turbare il Comitato di lettura. Nella ‘Gazzetta Teatrale’ del 29 Ottobre 1872, la non accettazione è ufficializzata. Ma ormai la causa del Boris è quella di tutti gli intellettuali progressisiti che l’hanno ascoltato più volte, a brani o per intero, nelle case amiche. Le istituzioni concertistiche ne presentano estratti. La prima è la Società della musica russa, che dà il quadro dell’incoronazione il 5 febbraio 1872; il 3 aprile successivo Balakirev dirige la Polacca nella serata della Scuola gratuita di musica. La battaglia si arricchisce di particolari leggendari: un’enorme folla – riferisce la spuria ‘Nota autobiografica’ – assiste a un’esecuzione cameristica nei saloni dei Purgold, dove viene decisa la realizzazione di tre quadri (quello dell’osteria e i due dell”atto polacco’) al teatro Mariinskij di Pietroburgo. La rappresentazione, inserita fra il secondo atto del Lohengrin e un quadro del Freischütz, ha luogo il 5 febbraio 1873 con un successo clamoroso. La famosa Julia Platonova canta la parte di Marina e si attribuisce, in un romanzesco resoconto apparso una dozzina d’anni dopo, il merito di aver imposto l’opera ricattando la direzione dei Teatri Imperiali: «O si dà Boris o io non canterò più qui!». E la direzione capitola! Si arriva cosi alla prima esecuzione, il 27 gennaio 1874. Il successo è tanto vivo da preoccupare le autorità. Gli studenti intonano i cori di Kromij lungo la Neva. L’opera minaccia di trasformarsi in un manifesto rivoluzionario, e la direzione del teatro, dopo i tagli effettuati alla ‘prima’ con il forzato consenso dell’ autore (il più rilevante dei quali è l’intero quadro della cella nel Monastero dei Miracoli), si affretta a sopprimere il quadro della ribellione. Poi, di sera in sera, gli interventi si moltiplicano riducendo lo spettacolo all’osso. In questa forma, Boris si regge a Pietroburgo per dieci rappresentazioni nel 1874, due nel ’75, due nel ’76, cinque nel ’77 e altre tre tra ’79, ’80 e ’81. Ventidue (secondo il Calvocoressi, venticinque secondo altri), mentre a Mosca andrà in scena nel 1888, con una decina di repliche fino al ’90.
L’esito, come si vede, fu tutt’altro che mediocre nonostante l’ostilità pressoché generale della critica. Quella dei conservatori era scontata. L’autorevole Hermann Laroche, amico di Cajkovskij, ripeté le consuete accuse di ignoranza e dilettantismo riservate al Gruppo dei Cinque. Il letterato Nikolaij Strakov, irritato per le interpolazioni al testo di Pushkin, definì l’opera «una mostruosità senza pari». Ai prevedibili attacchi si aggiunsero le inattese perplessità degli amici. Mentre Borodin è entusiasta, Cezar Kjui esprime su un nota rivista pietroburghese un parere offensivamente negativo: grigiore vocale, monotonia dei recitativi, sconnessione del pensiero musicale, insufficienza di senso critico e, per concludere, una «maniera frettolosa, poco esigente e vana di scrivere che ha dato risultati altrettanto deplorevoli nei casi di Rubinstein e di Cajkovskij». Frase particolarmente velenosa perché mette sul medesimo piano il ‘realismo’ nazionale di Boris e il cosmopolitismo degli accademici del conservatorio. Due posizioni inconciliabili, come conferma lo stesso Cajkovskij, dopo aver studiato ‘profondamente’ la partitura: «Io mando al diavolo con tutto il cuore la musica di Musorgskij; essa è la più volgare e la più bassa parodia della musica». Il vanto di aver rilanciato l’opera spetta a Rimskij-Korsakov, l’amico che ne ammirava il genio e ne temeva la sregolatezza: «Adoro il Boris e nel medesimo tempo lo odio. Lo adoro per la sua originalità, l’arditezza, la bellezza; lo odio per la sua grossolanità, le durezze armoniche e le assurdità musicali». Le parole, riferite da Vasilij Yastrebtzev, fedele cronista di Rimskij, non sono forse testuali, ma confermano la sfasatura temporale e intellettuale tra il capolavoro diretto al futuro e i musicisti ancorati al loro presente. In quest’ottica, per ‘salvare’ Boris, Rimskij lo riporta alle buone regole. A volte si tratta soltanto di minuzie tecniche; in altri casi di aggiustamenti che alterano l’originalità di Musorgskij secondo un criterio melodrammatico, in particolare esaltando i contrasti di colore strumentale e vocale. Messo da parte l’odio, l’amore per Boris si manifesta nello splendore del tessuto sonoro in cui il revisore lo avvolge. Tutto viene innalzato e potenziato: dalla scrittura più ‘eroica’ della parte dello zar, alla veste orchestrale arricchita di timbri brillanti e di smaglianti effetti. Queste qualità assicurarono alla traduzione ‘bella e infedele’ un successo tale da soppiantare a lungo il testo autentico. Rilanciò Boris sulle scene russe e poi su quelle europee, a partire dallo straordinario spettacolo di Djagilev e Shaljapin a Parigi nel 1908. Da allora ha regnato per mezzo secolo, grazie alla preferenza di cantanti e direttori, soggetta tuttavia anch’essa a tagli e varianti di ogni genere. Tra queste si inserì anche un’aggiunta: il reinserimento del quadro del San Basilio, riorchestrato da Mikhail Ippolitov-Ivanov per renderlo omogeneo alla versione di Rimskij-Korsakov. Presentata la prima volta nel gennaio 1927 al Bol’shoj di Mosca, si è mantenuta sino ai giorni nostri, sollevando però qualche dubbio. Il predominio della versione rimskiana cominciò a vacillare attorno al 1928, con la pubblicazione della partitura originale curata da Pavel Lamm. Lo stesso anno, il 16 febbraio, il ‘primo Boris ‘ (1869) viene montato a Leningrado, mentre il secondo (1872) riprende a circolare con frequenza sempre maggiore in Occidente, e oggi anche in patria, per lo più nella nuova edizione critica curata da David Lloyd-Jones. In Italia la ‘rimonta’ comincia con il Maggio musicale fiorentino del 1940 e culmina con lo straordinario spettacolo diretto da Claudio Abbado alla Scala nel 1979. La riscoperta del testo originale non impedì ulteriori interventi, fondati sulla convinzione che l’orchestrazione musorgskiana richiedesse qualche miglioramento. In quest’ordine di idee, Dmitrij Shostakovic elaborò nel 1940 la sua versione, portata in scena nel ’59 al Kirov di Leningrado. Basandosi sul Lamm, Shostakovic riorchestra tanto il primo quanto il secondo Boris , compiendo così un’operazione che vuol essere meno esteriore di quella rimskiana, ma che finisce per sovrapporre al testo la personalità del nuovo revisore, senza le giustificazioni storiche che, cent’anni or sono, guidarono Rimskij-Korsakov nel rilancio di quest’opera capitale.
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