LA TRAVIATA
TEATRO VALLI
Melodramma in quattro atti su libretto di Francesco Maria Piave tratto dal romanzo La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
Musica di GIUSEPPE VERDI
Violetta Valery, Svetla Vassileva
Flora Bervoix, Sara Allegretta
Annina, Lei Ma
Alfredo Germont, James Valenti
Giorgio Germont, Dalibor Jenis
Gastone, Visconte de Letorieres, Cristiano Cremonini
Barone Douphol, Claudio Sgura
Marchese d’Obigny, Mattia Denti
Dottore Grenvil, Lorenzo Muzzi
Giuseppe servo di Violetta, Martino Laterza, Ugo Rosati
Domestico di Flora, Marco Danieli, Mauro Marchetto
Commissionario, Giuseppe Nicodemo, Sandro Pucci
Direttore Daniele Gatti
Regia Irina Brook
Scene Noelle Ginefri
Costumi Silvie Martin-Hyszka
Coreografie Cecile Bon
Luci Zerlina Hughes
Maestro del Coro Marcel Seminara
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Nuovo allestimento del Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con Opèra de Lille
4 dicembre 2005 ore 19 7 dicembre 2005 ore 20
La Traviata di Giuseppe Verdi (1813-1901)
libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
Melodramma in tre atti
Prima: Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853
Archiviato il lusinghiero debutto del Rigoletto, Verdi si trova eccezionalmente ad attendere a due nuove opere, una per Roma (Il trovatore), l’altra per Venezia. Se il completamento della prima viene ostacolato dall’improvvisa morte del librettista Cammarano, la seconda si trova arenata per mesi sulla scelta stessa del soggetto. L’idea definitiva verrà a Verdi, come vera folgorazione, dalle prime recite parigine della Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio, nel febbraio 1852, dramma che l’autore aveva tratto da un proprio romanzo fortemente autobiografico del 1848, bestseller della letteratura scandalistica. La scabrosità del soggetto – la parabola amorosa di Alphonsine Duplessis, una delle più celebri cortigiane parigine, morta ventitreenne appena un anno avanti l’uscita del romanzo – non sfuggiva certo a Verdi: «Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, pei tempi [l’epoca contemporanea] e per altri mille goffi scrupoli. Io lo faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da mettere in scena. Ebbene: io ero felice di scrivere il Rigoletto ». Solo la censura veneziana, particolarmente tollerante con Verdi, avrebbe potuto accordare il suo assenso alla nuova provocazione, dopo aver accettato le arditezze di Ernani e Rigoletto, i cui stessi originali vittorughiani rimanevano banditi dalle scene in terra di Francia. Rifiutò tuttavia il titolo Amore e morte proposto da Verdi, appagandosi inspiegabilmente di quello ben più forte di Traviata; ma soprattutto impose una retrodatazione della vicenda al XVIII secolo, annullando così l’effetto prorompente addotto dalla contemporaneità del fatto, quasi cronachistico, nel quale gli spettatori avrebbero dovuto riconoscere i frac, le parures, le danze, i giochi, le tresche e i mal sottili propri della società cui appartenevano: un prolungamento della realtà sull’assito della finzione scenica. Verdi riuscì a malapena a impedire l’uso di parrucche ancien régime, ma non potè evitare l’effetto di straniamento che veniva a crearsi fra una musica tutta improntata alla danza del momento – il valzer voluttuoso e peccaminoso che stava conquistando l’Europa – e la lontananza epocale dell’immagine scenica. Annullato o almeno attutito, l’effetto della provocazione, non perveniva al pubblico che il solito cliché melodrammatico – come diceva Shaw – del «tenore che intende portarsi a letto il soprano, ma il baritono non vuole», affidato per di più a una compagnia di canto in gran parte inadatta alle ragioni del dramma (la protagonista Fanny Salvini Donatelli) o della musica (il tenore Ludovico Graziani e il celebrato, ma ormai logoro baritono Felice Varesi): « La traviata , ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei cantanti? Il tempo giudicherà», commentava il compositore all’indomani del debutto.
Con una precisa risposta in cuor suo, Verdi rifiutò ogni offerta di appello provenientegli da questo o quel teatro, fino a quando non ravvisò una compagnia vocale all’altezza. Nemesi della storia, la trovò proprio a Venezia, nel secondario Teatro di San Benedetto: apportate alcune modifiche per adattare la parte ai nuovi cantanti Maria Spezia, Francesco Landi e Filippo Coletti, con un gesto carico di provocazione Verdi riaffrontò il medesimo pubblico il 6 maggio 1854: «Sappiate addunque che la Traviata che si eseguisce ora al S. Benedetto è la stessa, stessissima che si eseguì l’anno passato alla Fenice, ad eccezione di alcuni trasporti di tono, e di qualche puntatura che io stesso ho fatto per adattarla meglio a questi cantanti: i quali trasporti e puntature resteranno nello spartito perché io considero l’opera fatta per l’attuale compagnia. Del resto non un pezzo è stato cambiato, non un pezzo è stato aggiunto o levato, non un’idea musicale è stata mutata. Tutto quello che esisteva per la Fenice esiste ora pel S. Benedetto. Allora fece fiasco; ora fa furore. Concludete voi!!».
I cambiamenti furono, in realtà, più consistenti di quanto Verdi avesse buon gioco di sbandierare, ma certo non tali da ribaltare il giudizio dello stesso pubblico a distanza di soli quattordici mesi. In entrambi i casi, l’azione segue il decorso e soprattutto lo spirito del dramma di Dumas (con l’omissione del secondo atto), piuttosto che l’omonimo romanzo, le cui tinte a volte sin troppo realistiche si erano stemperate sulla scena in un processo di nobilitazione dei personaggi, condotto a compimento nell’opera verdiana. La quale, dal canto suo, adotta una tecnica narrativa quanto mai insolita per il melodramma dell’epoca, massime se applicata alla sola musica, senza l’ausilio delle parole. In termini moderni parleremmo di flashback, o ancor meglio di narrazione a ritroso, condotta attraverso le note del preludio che apre l’opera: un ritratto musicale della protagonista, colta nello stadio del declino fisico (i diafani violini del primo tema, che caratterizzerà poi l’atto terzo), mentre la mente corre nostalgica ai tempi della tormentata relazione amorosa (è il passionale «Amami, Alfredo» del secondo atto) e ai giorni spensierati delle frivolezze parigine in cui la passione era divampata (ed ecco i guizzi brillanti dei violini a corteggiare il tema amoroso ripetuto con calore dagli archi gravi). L’ascoltatore viene così condotto per mano in questo viaggio a ritroso nel tempo, sino a venire catapultato nel bel mezzo della festa chiassosa che apre l’atto primo, con la consapevolezza che ciò cui assisterà è già ‘passato’: una situazione di euforica allegria, che il tempo ha in realtà ormai travolto e soffocato. «Dell’invito trascorsa è già l’ora»: sono quasi profetiche le parole con cui esordisce la folla d’invitati nel salotto parigino di Violetta.
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