The turn of the screw (Il giro di vite)
Musica di Benjamin Britten
Prima assoluta • Anteprima Festival Aperto / Reggio Parma Festival
opera in un prologo e due atti
libretto Myfanwy Piper, dall’omonimo romanzo breve di Henry James
musica Benjamin Britten
interpreti principali:
The Governess Laura Zecchini
Quint / The Prologue Florian Panzieri
Miles Ben Fletcher
Flora Maia Greaves
Mrs. Grose Chiara Ersilia Trapani
Miss Jessel Liga Liedskalnina
Icarus Ensemble
direttore Francesco Bossaglia
regia, ideazione scene e costumi Fabio Condemi
scene e drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich
costumi Gianluca Sbicca
luci Oscar Frosio
nuova produzione Fondazione I Teatri Reggio Emilia
La vera questione è interrogarsi sul vuoto, sull’assenza che trascina tutti i personaggi in una spirale discendente e inarrestabile.
«Credo che Il Giro di vite di Benjamin Britten – scrive Fabio Condemi nelle sue note di regia – non sia solo una trasposizione musicale del racconto di Henry James. Credo che sia invece una profonda riflessione sui temi presenti nel racconto, un testo parallelo che dialoga, si avvicina e si distacca continuamente dall’originale in un confronto fecondo e attualissimo».
Informazioni sullo spettacolo
19.05.2023 - h 20:00 - Teatro Ariosto (Fuori abbonamento)
21.05.2023 - h 15:30 - Teatro Ariosto (Fuori abbonamento)
Platea e balconata I ordine
€ 35,00
Balconata II ordine e Galleria
€ 25,00
Riduzioni
Iscritti Unimore > 50%
Under 30 > 30%
Amici dei Teatri > 20%
Over 65 > 15%
Gruppi (più di 15 persone) > 15%
Under 20 > 10 euro (disponibilità limitata)
Nel Giro di vite una narratrice senza nome, l’istitutrice dei due bambini, racconta una storia a Douglas, che la racconta a James e agli amici, raccolti attorno al focolare col fiato sospeso. Ma, al principio delle sue scatole cinesi James aggiunse un’altra figura senza nome: il master, lo zio dei bambini, di cui l’istitutrice è innamorata: un dio assente, che per pigrizia ed egoismo si disinteressa di Bly manor e dei suoi abitatori (come forse Dio si disinteressa del nostro mondo); un dio che è il centro vuoto, la causa lontana di tutti gli avvenimenti narrati – la corruzione dei bambini, le apparizioni spettrali, la furia dell’istitutrice, la morte di Miles. Tutti sappiamo cosa James ottenesse con il suo gioco di scatole cinesi. Mentre, da un lato, sembrava allontanare l’orrore e la tenebra con queste cortine di mediazione successive, i suoi veli, le sue reticenze, le sue omissioni, le sue cautele contribuivano d’altra parte ad accrescere la tensione fino a un diapason, che sembra insieme meraviglioso e intollerabile a qualunque lettore.
Pietro Citati
Fabio Condemi, regista
Al centro della vicenda raccontata in Il Giro di vite di James (1897) c’è un’assenza, un centro vuoto (questa la bellissima definizione di Pietro Citati) attorno al quale gravitano (come il falco della poesia di Yeats citata nel libretto dell’opera) i personaggi con i loro timori, le loro speranze, i loro sogni. La disputa sulla realtà/irrealtà degli spettri (che tanto divide gli esegeti jamesiani) diventa secondaria in quest’ottica. James (e Britten) utilizzano una cornice narrativa per organizzare il loro racconto.
Questa cornice innesca un meccanismo narrativo interessantissimo ed è il punto di partenza della nostra lettura dell’opera.
Nella riscrittura di Britten e di Myfanwy Piper (del 1953) compare una parola che prova a farsi carico, a nominare l’assenza: si tratta del termine latino malo. Compare a più riprese, anche con altri nomi (il primo atto finisce con la parola inglese bad mentre il secondo atto si conclude con la parola malo), ha un suo tema musicale, scorre come un fiume sotteraneo tra le pagine dello spartito, scompare per qualche momento e poi torna, apparizione lontana, spettro costantemente presente tra le mura di Bly Manor.
Francesco Bossaglia, direttore
Bruno Maderna diceva che l’opera è un’avventura umana, un avventura che pone dei problemi a cui i compositori, nel corso dei secoli, hanno provato a dare risposte sempre nuove senza mai risolverli veramente; proprio per questo l’opera lirica rimane un genere sempre vivo ed affascinante.
Benjamin Britten è uno degli autori che più hanno vissuto questa avventura nel corso del ventesimo secolo, con un catalogo di sedici titoli diversissimi tra loro, dall’opera da camera a lavori di grandi proporzioni, dall’opera per bambini alle “church parables” ispirate al teatro Nō; una produzione che nell’arco di più di trent’anni ha scandito la vita artistica di Britten, mettendo in luce un’ispirazione ed un artigianato unici nella storia della musica.
La commissione di The Turn of the Screw viene dalla Biennale di Venezia del 1954, un festival in cui nella sezione cinema si vedevano in concorso La Strada di Fellini e Senso di Visconti, in quella del teatro arrivava all’isola di San Giorgio per la prima volta una compagnia giapponese di teatro nō, e per la musica erano in programma lavori di Hindemith, Maderna, Webern, Piston e Bernstein diretti, tra gli altri, da Bernstein stesso, Celibidache e Cantelli. Al Teatro La Fenice andava in scena la prima italiana di Porgy and Bess.
Per questo contesto Britten scrive un lavoro di grande forza, composto in un linguaggio musicale molto denso e con una originale struttura drammaturgica.
Ogni scena dell’opera è infatti preceduta da un intermezzo musicale. Questi intermezzi, con cui Britten articola le diverse parti dell’opera come fossero scene di un film, sono una serie di variazioni su un tema di dodici suoni (un tema dodecafonico per la Biennale di Venezia) che fa da ponte tra il Prologo introduttivo e la prima scena del primo atto.
Britten è un maestro nel modellare una scenografia musicale partendo dalle situazioni teatrali del libretto: i timpani diventano il suono della carrozza che accompagna il monologo carico di attesa della Governante, il flauto e l’oboe il canto degli uccelli al tramonto, e poi ci sono i suoni del “soprannaturale”, la celesta che, come un carillon diabolico, sottolinea le apparizioni del fantasma Peter Quint, o il trio scuro di flauto contralto, corno inglese e clarinetto basso che avvolge il dialogo notturno tra il piccolo Miles e la Governante.
Accostarsi ad un lavoro di Britten, in particolare ad un lavoro vocale, è un privilegio per qualsiasi musicista e Turn of the screw non fa eccezione.
Con la finezza della scrittura per le voci, Britten descrive un preciso ritratto psicologico dei personaggi e delle loro relazioni; uno degli aspetti più affascinanti del lavoro di un direttore d’orchestra o di un cantante è proprio quello di andare a ricostruire la vera e propria regia che l’autore ci suggerisce attraverso ogni piccolo segno della partitura.
Fabio Cherstich, scene e drammaturgia dell’immagine
Nell’affrontare questa nuova creazione con Fabio Condemi – la sesta dall’inizio del nostro percorso insieme, cominciato con la messa in scena di Jakob von Gunten di Robert Walser nel 2017 alla Biennale di Teatro di Venezia – ho deciso di proseguire una ricerca visiva incentrata su uno spazio scenico marcatamente installativo, in continua trasformazione, attraverso un montaggio dinamico e cinematografico di scene e quadri, in cui l’azione drammatica acquisti in relazione alla spazialità una forza simbolica e concettuale. Non una scenografia architettonica ma un dispositivo scenico fatto di scatole cinesi, piccoli set dal gusto cinematografico e cambi di livello spaziale che prevedano la visione in contemporanea di più piani temporali dell’azione. Una macchina scenica che Fabio Codemi ed io abbiamo concepito per condurre gli spettatori all’interno di questo viaggio negli abissi dell’uomo – e del male, che è l’Opera di Britten nella nostra rilettura. La mia curatela visiva cerca da sempre di attingere stimoli e suggestioni dal mondo dell’arte contemporanea e per Turn of the screw è stato fondamentale lo studio del lavoro di Gregor Schneider, il controverso artista austriaco famoso per la sua “Haus u r” (La casa morta), progetto di rivisitazione degli spazi domestici della casa di famiglia, in cui gli ambienti della casa sono oggetto di un incessante lavoro di modificazione attraverso la costruzione di muri, di fessure, di corridoi, di finestre murate, di tunnel, che fanno dell’edificio un opera d’arte in continuo divenire, in cui anche gli elementi naturali vengono inscatolati, racchiusi all’interno dell’architettura. Altrettanto importante è stato guardare al lavoro di staged photography di Gregory Crewdson, al cinema horror di Veronica Franz e rileggere con Fabio Condemi l’illuminante “The Weird and the Eerie” di Mark Fisher, riferimento saggistico a cui spesso stiamo tornati nell’andare a comporre la drammaturgia visiva dello spettacolo.
Fabio Condemi mi ha da subito parlato dell’idea di svolgere lo spettacolo come un’indagine, una giallo fatto di indizi che si ricostruiscono soprattutto nella testa di chi guarda.
Ricordo l’entusiasmo col quale ho ascoltato la sua proposta, una lettura molto stimolante, per chi, come me, ha l’ossessione delle immagini e della loro traduzione in materia teatrale.
Da qui l’idea di avere la cornice di un garage-scantinato in cui far ritrovare a un detective gli elementi che andranno, poi, a comporre la storia, che come nell’originale si svolgerà negli spazi “riletti” della grande villa col parco di Bley.
Come in Britten però gli spazi, durante l’indagine, perderanno di definizione, cadranno l’uno nell’altro.
Le due linee spaziali – quella del ritrovamento e quella della storia – inizialmente ben definite, si confondono. Ci sono più piani che si accavallano in scena: il racconto dell’istitutrice, gli appunti ritrovati dal detective di un misterioso personaggio, che prima di lui stava indagando su questo caso, gli appunti del detective stesso che si fa coinvolgere in modo ossessivo, fino a essere preso dal male. Qual è la verità? È continuamente spostata, parziale, distorta e così lo spazio mantiene e traduce questa distorsione in immagini che scivolano l’una nell’altra, in esterni che appaiono dentro agli interni. L’elemento naturale, così presente nel libretto originale, viene presentato in forma di natura selvatica, sinistra, potente, che incombe e si manifesta nelle scene d’interno.
Tutta l’opera diventa così un’indagine anche visiva, fatta di frammenti e di scene che si compongono e scompongono davanti agli spettatori, un’indagine su quel centro vuoto che c’è in Turn of the screw e di cui sempre parla Condemi: un vuoto che da subito mi ha appassionato perché legato a quel mistero profondo e irrappresentabile nella sua unità che è il male.
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