ISRAEL GALVAN
Arena
coreografia Israel Galván
responsabile del progetto Máquina P.H.
coreografia Israel Galván
direzione artistica Pedro G. Romero
regia Belen Candil
con la collaborazione speciale di
Diego Carrasco, David Lagos, canto
Enrique Morente, canto in video
Diego Amador, piano jondo
Gruppo Charanga Los Sones:
Miguel Angel Delgado Zambruno, Fulgencio Orden Cierro, Fernando Mendez Santos, Tomas Garcia Lopez, Luis Torres Morales, Julio Diaz Sanchez
Mercedes Bernal cornamusa del Gastor
Alfredo Lagos, chitarra
El Bobote e El Electrico palmas
musica registrata composizione per 4 percussionisti di Francisco Guerrero, eseguita dal Grupo de percusiones de la Oja (Orquesta Joven de Andalucia)
luci e direzione tecnica Ada Bonadei
audio Félix Vázquez
costumi Mangas Verdes
A Negro producciones, Cisco Casado, Chema Blanco
Distribuzione internazionale : polimnIA – Carole Fierz
ARENA
Presentato per la prima volta nell’ottobre 2004, in occasione della XIII Biennale di Flamenco di Siviglia, Arena è un approccio alla festa dei tori, un classico del repertorio e della produzione coreografica flamenca che Galván rivisita radicalmente sia a livello della forma che del contenuto. Il lavoro gli è valso il Premio Giraldillo per il migliore ballerino della Biennale di Flamenco di Siviglia e il Premio Flamenco Hoy per il migliore ballerino del 2004.
É stato presentato in Francia al Festival di Marsiglia nel luglio 2005.
In questo spettacolo Galván, il grande rinnovatore della danza flamenca, propone sei coreografie per sei tori, sei arene: si inizia con Bailador, nome del toro che uccise Joselito El Gallo nel 1920. Galván è immobile, pantaloni tagliati al ginocchio, a piedi nudi. Il canto è di Enrique Morente. Si prosegue con Granaino, il toro che tolse la vita a Ignacio Sánchez Mejías nel 1934; Pocapena, il toro che uccise Manuel Granero nel 1922; Burlero, lo spazio della plaza de toros, Playero e Cantinero. Luci essenziali, un disegno apparentemente semplice che nasconde in realtà un grande sforzo tecnico e interpretativo.
Non si tratta della rappresentazione di una corrida, non si tratta dell’imitazione della danza del toro o del torero, si tratta della funzione della tauromachia e dei risultati cui l’arte della danza flamenca può giungere a partire da parametri nuovi.
È in quest’ottica che Israel Galván si avvicina alla festa taurina. Con la sua danza pretende di rinnovarne sia la forma che il contenuto, considerando il soggetto da nuove prospettive. In un certo senso cerca di neutralizzare la dialettica taurino/antitaurino, collocandosi nel pieno dell’azione del toro. È il carattere performativo di ciò che accade durante la corrida a interessarlo e non la posizione etica dalla quale si giudica il rituale. Ciò non significa rinunciare a esprimere i concetti più significativi della festa. Non si può eludere la morte, la violenza, il pericolo, il coraggio, il dolore…
Figure di primo piano del mondo del flamenco collaborano a questo spettacolo: Enrique Morente (video), Diego Carrasco, Diego Amador, Alfredo Lagos.
Dal video all’inizio dello spettacolo
Luis Miguel Dominguin nel film:
“Gli angeli sterminati” (1968)
di José Bergamin e Michel Mitrani
L.M.D.: Il toro è colui che simbolizza davvero la
morte, per quanto io creda che non è mai il
toro ad uccidere il torero. Credo che ad uccidere
il torero sia sempre il pubblico.
M.M.: Dunque il pubblico è morte?
L.M.D.: Il pubblico è morte.
Con La Metamorfosis (2001), vera e propria immersione nell’universo di Kafka, il pubblico scopriva la forza con la quale Israel Galván aggrediva la tradizione flamenca, in particolare con la scelta di danzare su musiche di Kurtag e Ligeti. Quattro anni più tardi il coreografo lancia una nuova sfida: fare dell’arena un’estensione del dominio della danza.
A piedi nudi, i pantaloni tagliati al ginocchio, Israel Galván attacca Bailador, il primo dei soli di Arena, coreografia per sei tori, con un gesto secco e preciso della mano. Poi si anima un tallone e infine prende vita tutto il corpo, in un’economia del movimento caratteristica del sivigliano, grande innovatore del flamenco. Una prima immagine che non può non richiamare il ricordo del fauno Nijinskij con cui Galván ha in comune la stessa fascinazione tellurica per la morte, il coraggio, il pericolo, la dolcezza e il dolore, filo d’Arianna di uno spettacolo che va all’assalto della tradizione e dissolve la dialettica taurino-antitaurino.
Attorniato, come in una tragedia antica, di cantanti – David Lagos e Diego Carrasco – e di musicisti – Diego Amador e il suo piano jondo, il Cuadro Flamenco con la chitarra di Alfredo Lagos, le palmas di El Bobote e El Electrico, Mercedes Bernal con la cornamusa del villaggio di El Gastor, la banda Los Sones – è da danzatore che Israel Galván scende nell’arena.
Là, eretto al centro del palco, mentre vengono proiettate le immagini commoventi di Enrique Morente che si leva sul pubblico smanioso e canta il fervore popolare, il coreografo non cerca di illustrare il combattimento del torero. E neppure la festa della morte del toro alla quale assistono gli aficionados. Osserva gli assalti tra uomo e animale per trarne materia nuova per la propria arte. E trasformare la scena in una “lavagna nera su cui si risolvono i problemi di matematica, le traiettorie fisiche, le reazioni chimiche della vita e della morte”.
Festival di Marsiglia 2005
Ragione e della passione, della verità e della vita
José Bergamin
Impossibile evocare il flamenco senza soffermarsi sull’arte del toreare. Due “arti magiche” che, nel tempo di uno spettacolo, traducono in realtà una “finzione dell’essere”*. Al di là delle sorgenti culturali comuni, danza flamenca e tauromachia sviluppano una reale estetica del corpo, dello spazio e del ritmo. Una “tauromachia danzata” che rimanda a un legame fragile, provvisorio, che, in un profondo silenzio, aggiorna il rapporto ancestrale dell’uomo con il mondo.
Uomo in bilico, sensibile ai flussi delle sensazioni che si propagano dall’arena, il torero, come il danzatore, plasma una geografia dell’immaginario. Come la coreografia che si sovrappone allo spazio della scena, le traiettorie del corpo in tensione si aggiungono a quello dell’arena, rivelando un circolo invisibile: la tauromachia danzata. “Una sorta di pornografia della morte che devia e nega il gioco della vita”. Una danza macabra, sospesa tra sogno e realtà. Una danza ritmata da ciò che gli aficionados chiamano temple. Quel momento particolare che sopraggiunge quando il toro, senza perdere lo slancio, armonizza i propri movimenti con quelli del torero, come in un passo a due.
Questo temple, questo ritmo, è un criterio estetico fondamentale della tauromachia, ma anche del flamenco. È attraverso di esso che si esprime il duende [fascino, N.d.T.], lo stato di sospensione, di grazia, nel quale il danzatore abbraccia il presente, il passato e il futuro in una “magia originale”. Una “armonia musicale superiore, quieta, placata, distesa” che Cervantes chiamava il “meraviglioso silenzio”. Un momento che Rudolf Laban, coreografo e pioniere della danza contemporanea al principio del Novecento, definiva “la regione del silenzio”. “Esiste un temple in cui tutta la gioia, il dispiacere, il pericolo, la lotta e il riscatto del ballerino sono riuniti […] un temple che cambia di
continuo, oscilla e costruisce danze che sono preghiere in movimento”. E che, forse, illustrano la “solitudine sonora” dell’umanità intera.
Festival di Marsiglia 2005
*Citazioni tratte da: “La Solitude sonore du toreo”, Josè Bergamin, Seuil, 1989
«La danza e il canto andaluso sembrano unirsi nella
figura luminosa e oscura del toreo e del toro, della
ragione e della passione, della verità e della vita»
José Bergamin
Biografia
Israel Galván de los Reyes (Siviglia, 1973) apprende la danza fin dall’infanzia grazie al padre, il ballerino José Galván.
Nel 1994 entra nella Compañía Andaluza de Danza diretta da Mario Maya, inizia allora un percorso straordinario che in poco tempo lo conduce a ottenere i tre premi più importanti della danza flamenca: il Premio Vicente Escudero del Concurso Nacional de Arte Flamenco di Cordoba (1995), il Premio El Desplante del Festival Internacional del Cante de las Minas de La Unión (1996) e il Premio del Concurso de Jóvenes Interprétes della IX Biennale di Flamenco di Siviglia (1996).
Creatore di uno stile virtuoso e rinnovatore all’interno della grammatica flamenca, Israel Galván, ha sviluppato un’estetica che ne unifica in modo significativo i due approcci contemporaneo e tradizionale.
Risale al 1998 lo spettacolo Mira! Los zapatos rojos per il quale la critica specializzata riconosce unanimemente la genialità di Galván. In occasione della XI Biennale di Flamenco di Siviglia, nel 2000, presenta la sua seconda creazione: La Metamorfosis, basata sull’omonimo racconto di Kafka, su musiche originali di Enrique Morente, Lagartija Nick ed Estrella Morente, con la quale marca decisamente un prima e un dopo nella danza flamenca.
Nel gennaio 2001, Israel Galván riceve il Premio Flamenco Hoy attribuito dalla stampa specializzata al miglior ballerino flamenco. Dal 2002 al 2004, numerose tournées lo portano dal Giappone agli Stati Uniti, da Cuba al Messico.
Enrique Morente lo chiama per il suo zapateado su alcuni titoli dell’album El Pequeño Reloj e per comparire accanto a Pat Metheny e Ute Lemper in un film sull’Alhambra di Granada. Nel 2005 riceve il Premio nazionale di Danza attribuito dal Ministero della Cultura spagnolo per la sua creatività nel flamenco. Lo stesso anno, presenta La edad de oro creazione nella quale gioca sottilmente con i tre pilastri dell’arte flamenca: il canto, la danza e la chitarra. Lo spettacolo è stato presentato più di cento volte in Europa, Medio Oriente e America.
"Tabula Rasa, nel 2006, vale ad Israel Galván il Premio Flamenco Hoy per il migliore spettacolo flamenco dell’anno.
L’anno 2007-2008 è dedicato allo sviluppo di un lavoro ambizioso sul tema dell’Apocalisse intitolato El final de este estado de cosa.
La versione finale di questo spettacolo nel quale Israel Galvan è circondato da artisti flamenco, da un trio heavy metal e da musicisti contemporanei, è stato presentato all’Opera di Siviglia nel 2008, al Festival di Villa Adriana Roma e al festival d’Avignon, nelle carrières Boulbon, nell’estate 2009.
La danza di Israel Galván mette in mostra la figura libera e la linea singolare, l’ellissi. Egli lavora innanzitutto sullo stato interiore del ballerino in scena, sulla sua capacità di rischiare. Nel suo stile, così personale, si percepisce in filigrana l’energia di un Farruco, la precisione di un Vicente Escudero, la forza serena di un Enrique El Cojo. Innovatore sì, contemporaneo certo, ma nutrito di una storia forte e superbamente assimilata.
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