GIULIO CESARE
di William Shakespeare
Giandomenico Cupaiuolo Bruto
Roberto Manzi Cassio
Ersilia Lombardo Calpurnia
Lucas Waldem Zanforlini Casca e Ottaviano
Livia Castiglioni Porzia
Gabriele Portoghese Marc'Antonio
regia Andrea Baracco
adattamento Vincenzo Manna e Andrea Baracco
scene Arcangela di Lorenzo
consulente ai costumi Mariano Tufano
disegno luci Javier Delle Monache
regista assistente Malvina Giordana
produzione Benvenuti srl e Lungta Film – in collaborazione con Teatro di Roma
foto di scena Giuseppe Distefano
Spettacolo invitato a rappresentare l’Italia dallo Shakespeare Globe Theatre di Londra Festival Globe to Globe 2012
Olimpiadi Londra 2012
estremi rimedi. Oppure niente”
Re Claudio – Amleto – IV, III.
Nel Giulio Cesare Shakespeare mette in scena una società in via di estinzione (quanta lungimiranza!), una società colta esattamente nell’attimo terminale del proprio crollo, una società vittima del suo fallimento intellettuale, spirituale e politico.
Shakespeare scatta una “fotografia” di una Roma livida e ferocemente allucinata dove sullo sfondo, al di là dei colli e dei monumenti, compaiono le nitide sagome di avvoltoi e di famelici cani rabbiosi pronti a scagliarsi con insaziabile violenza addosso a corpi mal conciati dal crollo fisico e nervoso.
La Roma disegnata da Shakespeare è una città che vive sotto un cielo di piombo, sotto l’ombra di un’ingombrante corona di ferro, una città di silenzi che si fanno culla di improvvisi rumori, assordanti; è una Roma dove si sentono scrocchiare mandibole e strofinare violentemente mani l’una contro l’altra (Casca), in cui i corpi, sfiorandosi, producono sordi suoni di lamiera (i congiurati tutti); è una Roma nascosta e privata che si raccoglie alla luce di una lampadina per produrre, poi, squarci e profonde ferite nei luoghi pubblici (ancora i congiurati); è una Roma che suona di passi solitari e furtivi (Cassio), di verità indicibili che esplodono in pensieri assordanti, in sogni maldestri (Cesare e Bruto), in visioni apocalittiche nate da menti di donne sterili (Porzia).
Una Roma vittima di un cortocircuito: via le luci, è l’ora della notte, nera, senza luna.
Giulio Cesare, Bruto, Cassio, Marc’Antonio, Porzia, Calpurnia, Casca, Cinna, i cesaricidi, la folla inferocita e liquida, la Repubblica e/o la Monarchia.
In che posizione si pone Shakespeare? È repubblicano o monarchico? E’ dalla parte di Cesare o di Bruto? Cesariano o cesaricida? Ed in tutto questo quale funzione ha la folla inferocita e liquida?
“Peste alle vostre due famiglie” sibila Mercuzio prima di morire nel Romeo e Giulietta, né Montecchi né Capuleti quindi, né da una parte né dall’altra, oppure, sia da una parte che dall’altra, questa è la formula shakespeariana per eccellenza in materia politica.
L’indecidibilità è la regola, sembra suggerire lo scrittore: è notte, Bruto è nella sua stanza, cerca di dar luce ai suoi contraddittori pensieri al bagliore di una lampadina; vengono annunciati i congiurati, entra una lenta ed elegantissima processione, come in una sorta di serata di gala. Bruto è lì, cinto nella sua vestaglia. Osserva attonito e stanco la sfilata, poi si alza e inizia a seguire la processione, si siede una volta, poi si rialza, poi si risiede, una seconda volta. Alla fine desiste. Ascolta le parole di Cassio, quelle di Casca, mentre fuori le mura di Roma vengono imbrattatate con scritte dai colori accesi, dai tratti netti e taglienti: “Bruto tu dormi?”, “Tu non sei davvero Bruto!” (in riferimento al suo illustre antenato che fu tra coloro che cacciarono l’ultimo Re romano, Tarquinio). Cesariano o cesaricida, quindi?
Non si può considerare il gioco politico omicida del Giulio Cesare un’attività perfettamente razionale e logica, infatti nemmeno Bruto, il più “lucido” dei congiurati decide di assassinare per motivi razionali – “Da quando Cassio mi ha aizzato contro Cesare, non ho dormito. Tra l’attuazione di una cosa terribile e il primo impulso, l’intero intervallo è come un’allucinazione, o un orribile sogno” – dice ; ed è proprio all’interno di questo “intervallo onirico” che si colloca la sua decisione omicida, “La vestaglia di Bruto” potrebbe essere, infatti, un titolo alternativo al testo. Non quindi sul piano analitico, strategico o razionale avviene la scelta, ma su quello dell’incoscienza, del dormiveglia, esattamente sulla soglia lì dove il lume della ragione è offuscato dalle nebbie e dai bagliori del sogno.
In realtà quindi il senso ultimo del testo di Shakespeare non è incentrato né sulla figura di Giulio Cesare (che infatti l’autore fa morire a metà del III atto) né tantomeno su quella dei suoi assassini, né su un episodio della storia romana, ma pone l’accento sulla violenza in quanto tale e sulla sua origine, una violenza non controllata, che nasce dall’incertezza, dalla precarietà, dalla crisi, una violenza che si manifesta sia attraverso le scelte e quindi poi le conseguenti azioni di uomini “illuminati” e pubblici, sia attraverso le reazioni umorali di una folla inferocita e liquida; è questa violenza a dare all’opera la sua unità.
Ed allora cosa importa se il Cinna in cui casualmente ci imbattiamo è uno dei congiurati o un omonimo poeta? Si uccida pure Cinna! Perché scrive brutti versi!
Il lavoro performativo e di preparazione allo spettacolo prenderà quindi le mosse da questi presupposti di “senso” , nel tentativo di restituire, attraverso studi e fasi di avvicinamento, la materia della parola shakespeariana.
Perché l’universo onirico è così presente nel testo in questione? Di che materia sono fatti i corpi dei personaggi che in quell’universo sembrano vivere? In quale luogo nasce la violenza arbitraria? Dove trova il suo terreno fertile? Shakespeare sembra suggerirci che la violenza incondizionata è l’unico strumento che la collettività è in grado di utilizzare per uscire dalle proprie crisi, dai propri disequilibri e crolli nervosi; aggregarsi per commettere delitti e assassinii contro colui o coloro che vengono, a torto o a ragione, reputati i responsabili della crisi stessa. Siamo davvero certi che l’antico meccanismo del “capro espiatorio” sia soltanto un lontano ricordo dalle società arcaiche? (Andrea Baracco)
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